Maturazione, cambiamento, rinnovamento: tante nozioni racchiuse nello status di una band che in poco tempo si è ritagliata il ruolo di icona del genere post-punk e che un album come Tangk tende a rimarcare in grassetto. Perché se il ruolo di miglior attore non protagonista spetta al pianoforte che dolcemente accarezza l’ugola di Joe Talbot in “Idea 01”, è subito la cara vecchia rabbia a riprendersi il ruolo di interprete principale in “Gift Horse” e lo capiamo non appena parte il basso martellante di Adam Devonshire.
Per avere il primo vero scossone bisogna attendere la traccia numero quattro, “Roy”, per merito di una performance dello stesso Joe che ci coglie impreparati con una melodia vocale ispiratissima, ma inedita per i canoni tipici degli IDLES. “Dancer” non mantiene la promessa di essere un pezzo disco, eppure è rassicurante vedere come il gruppo di Bristol abbia mantenuto intatta una certa vena hardcore.
La produzione di Nigel Godrich, storico collaboratore dei Radiohead, ha dato ulteriori input creativi e da lì nascono canzoni come l’inquieta “Grace”, dove l’amore esplode creando un suono spaventoso che si riesce ad avvertire solo nel profondo della propria anima. “Hall & Oates” ci riporta a Brutalism e agli esordi della band, quando il sound era più grezzo, privo di ogni sorta di patinatura. La tribale “Jungle”, la sperimentale “Gratitude” e i tre minuti scarsi impregnati di contaminazioni jazz di “Monolith” sono il tris d’assi calato dal quintetto per chiudere il discorso su quello che sarà incontestabilmente uno degli album dell’anno.
In mezzo a diverse impressioni complesse gli IDLES rimangono la medesima inconfutabile garanzia.
IDLES – Tangk
In mezzo a diverse impressioni complesse gli IDLES rimangono la medesima inconfutabile garanzia
