Com’è nato il Castelfranco Jazz Festival?
C’è un bel dipartimento di jazz qui a Castelfranco, con cui lavoro da 14 anni, che è molto attivo. Con me ci sono ad esempio Mauro Ottolini, Francesca Bertazzo (che si sono già esibiti a Treviso Suona Jazz Festival, ndr.) e abbiamo un centinaio di iscritti.
Il Festival è nato dieci anni fa per iniziativa dell’Osteria Maniscalco, i cui proprietari erano molto appassionati di jazz, che organizzava concerti nella sua fantastica location, sotto le mura del Castello, ma visto che è era troppo dispendioso per un locale solo, è subentrato il Conservatorio. Diciamo che da un paio d’anni a questa parte, a parte qualche sponsor, è il Conservatorio a farsi carico di tutto.
Come risponde la città a questo festival?
La città risponde bene, ci tiene. C’è una sinergia generale tra città e Conservatorio, si sente che le cose vengono fatte con passione, e la gente lo capisce. Mi capita di esser fermato per strada, mi chiedono le date, le novità. Anche il concerto di Norma Winston con Glauco Venier nel Teatro Accademico, ad esempio, è stato un successo di pubblico. Proprio perché è piccola, la città è adatta ai festival, l’ho sempre pensato: si possono vedere tutti i concerti nel centro, spostandosi a piedi.
Ogni anno è diverso. Quest’anno abbiamo usato spesso il Teatro Accademico per ammortizzare un po’ i costi, ma l’anno scorso, ad esempio, avevamo una location diversa per ogni concerto.
Ci sono tanti giovani appassionati, anche dal Conservatorio, che partecipano?
Sì, tanti lo fanno attraverso il volontariato. La forza di questo “format” sono le masterclass e i workshop, che consentono di mettere a contatto i giovani con i grandi musicisti. La masterclass rafforza anche la funzione didattica del Festival, che non è quindi solo intrattenimento. Questo è importante per le relazioni con le istituzioni. Spesso i ragazzi ascoltano ciò che dicono questi grandi artisti internazionali, ci credono quasi di più, che se certe indicazioni gliele dessimo noi da insegnanti! Poi è ovvio che ognuno ha le sue sfumature, spesso gli insegnamenti sono gli stessi che arrivano da noi Maestri, ma appresi dalle star internazionali hanno un altro sapore.
Questi artisti sono disponibili quando chiedete loro di insegnare?
Sì, sono disponibili, contenti di essere ben accolti, sono curiosi della città, assaggiano i cibi tipici… Specialmente se stranieri, sono attratti dai piccoli borghi e i loro gioielli architettonici, e scopriamo che, come sempre, i più grandi sono anche i più alla mano.
Quali nomi le vengono in mente, senza far torto a nessuno dei tanti musicisti che avete ospitato?
Tra gli italiani ricordo Enrico Pieranunzi, Franco d’Andrea, Dado Moroni, solo per citare i pianisti. Poi ci sono state cantanti come Rachel Gould, Barbara Casini… Ricordo il batterista Jimmy Cobb, che ha tenuto un incontro per gli studenti. Conoscere un personaggio così importante (è stato il batterista storico di Miles Davis) è stato emozionante anche per me. Sono esperienze indimenticabili. Conoscere Dee Dee Bridgewater, ad esempio, mi ha segnato. Sono così emozionato ad avere un’icona del canto, un’artista e musicista a tutto tondo, con contaminazioni di tutti i tipi, una voce black, sì, ma sempre molto centrata e raffinata. Per me sei un’artista se, al di là della voce, qualsiasi progetto che fai, ti riesce, funziona, hai intelligenza e sensibilità. Lei è così.
L’ultimo concerto di chiusura, dopo l’evento di punta di Dee Dee Bridgewater, è il Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale…
Qui suono anche io, per il decimo anno mi hanno chiesto di partecipare. È una “small band” di undici elementi, un laboratorio creativo “alla Mingus” con molto spazio per gli arrangiamenti di ogni strumento. Ha un suono unico, è sempre stata molto apprezzata dai critici, ha collaborato anche con la “Mingus Orchestra”, proprio quella.
Cosa pensa della musica degli ultimi anni?
Non parlo di jazz, ma di musica in generale: in Italia siamo al minimo storico di quello che si possa proporre, ad esempio, ad un festival della canzone italiana. In generale la qualità si è molto abbassata, parlo proprio del tipo di spettacolo: se pensiamo che solo negli anni Novanta al Festival di Sanremo si esibivano con i nostri i grandi artisti internazionali, da Sarah Jane Morris a Ray Charles.
Quali sono gli spazi per i giovani?
Io ho voluto fortemente questa rassegna “Manzotti New Generation” di bravi musicisti che si sono esibiti ogni sera, tranne durante la “notte blu” nei giardini dell’Osteria Maniscalco. Spesso succede che nei festival ci sono sempre i soliti nomi, famosi, per andare sul sicuro e fare il pienone, e che non ci sia per i giovani. Questi magari si esibiscono all’estero, ma non trovano vetrine nei loro posti d’origine. Quindi, come Conservatorio, teniamo molto a questo aspetto. Il lavoro da talent scout è portato avanti anche da grandi musicisti: Enrico Rava, come Miles Davis a suo tempo, ad esempio, è uno che investe sui giovani.
Il grande artista è anche quello che ha la visione, la capacità di capire che un giovane è veramente forte. Chi ha collaborato con Miles Davis, per dire, ha fatto una carriera incredibile, ma non solo perché aveva la strada spianata, ma semplicemente perché lui sceglieva quelli davvero talentuosi.
State già immaginando la prossima edizione del Festival?
In realtà sì, perché ogni volta c’è sempre qualcosa che si potrebbe migliorare. Pensiamo a una edizione ancora più coinvolgente per la città, che abbracci più associazioni, più locali. Dall’inizio le cose sono cambiate, eravamo meno persone, oggi “la macchina” è diventata più grande e quindi, in prospettiva, capiamo che abbiamo bisogno di più collaboratori. E ho visto tanto entusiasmo.
Ringraziamo Gianluca Carollo per l’intervista e le belle esperienze che ha voluto condividere con noi, dando l’appuntamento alla prossima edizione di Castelfranco Jazz.