A due anni di distanza da “Credo” (prodotto da Renato Zero, cui è legato da un sodalizio ventennale), Vincenzo Incenzo ci consegna “Ego” (Verba Manent / distribuito da Artist First); un disco sulla costruzione dell’identità, sul difficile e controverso equilibrio tra unicità e uguaglianza.
“Ego”, con la produzione di Jurij Ricotti, è un elegante e riuscito métissage di world music, anima melodica ed electro beat, canzone d’autore, trip-hop e dance, capace di legare a filo doppio spleen esistenzialista e topical songwriting e ridefinire profondamente i rapporti tra singolo e collettività.
Un album uno tempore intimista e insurrezionale, che scava nelle derive nichiliste del postmodernismo cogliendone le chances di resistenza e ribaltamento: “è questo il momento di fare fuoco con la bellezza del nostro agire” può essere considerata forse la frase-manifesto del progetto.
In questa intervista Incenzo (autore- tra gli altri- per Renato Zero, Lucio Dalla, Michele Zarrillo, Patty Pravo e Ornella Vanoni- scrittore per il teatro, la televisione e il cinema, poeta, cantautore e pittore) racconta il nuovo lavoro, percorso da un’urgenza genuina di sfondamento e sconfinamento di genere.
A proposito di “Ego” ha dichiarato: “Nessuno ha più voglia di essere EGO, di rompere la linea, uscire dalla folla e incontrare veramente se stesso. (…) Credo che l’uguaglianza abbia valore tra diversi, mi spaventa l’uguaglianza tra eguali.” Paradossalmente l’omologazione di cui parla può scaturire da una eccessiva e narcisistica curvatura dell’identità su se stessa, da una sorta di carcere autoreferenziale che ci rende depersonalizzati e confusi?
L’identità si è curvata in assenza di modelli virtuosi, come conseguenza della morte della cultura nei salotti televisivi, in un mondo dove l’odio affascina e il bene annoia. La folla è rassicurante, evita l’angoscia della scelta, è un rifugio vigliacco, e sempre più si tende a preferire la comodità alla libertà.
In “Credo”, il suo primo album da cantautore, uscito nel 2018, era presente-per sua stessa ammissione- “la volontà di ritornare a credere che le canzoni possano avere una ragione sociale.” La dimensione sociale, pur legata indissolubilmente a quella intima, sembra permeare anche “Ego”…c’è in lei qualcosa del tradizionale cantautore engagé, anche quando scrive di amore?
La lezione dei grandi cantautori mi accompagna da sempre, anche nel mio percorso di autore. Ho cominciato a cantare le mie canzoni a 18 anni al Folkstudio a Roma, locale storico, dove sono passati tutti, da De Gregori a Venditti a Rino Gaetano.
Lì la canzone nasceva per un’urgenza autentica. Quell’urgenza è centrale per me anche oggi, non ci sono canzoni cuscinetto nei miei album, e sono sempre più convinto che le canzoni torneranno ad essere sentinelle del tempo in cui si esprimono.
Nel 2011 ha vinto il Premio internazionale di Poesia Alfonso Gatto per la raccolta Cinema Mundi (Edizioni Lieto colle). Cosa ne pensa della vexata quaestio, se la canzone possa essere poesia o se si tratti di generi non sovrapponibili, con statuti innegabilmente diversi?
La poesia si regge sulle sue gambe, ha già in sé ritmo, curve melodiche, intonazione, pause. Il testo di una canzone (ma non è affatto una diminutio) ha bisogno della sua musica, con la quale si ossigena in un circuito virtuoso e gestaltico anche per la stessa melodia. Potrei uscirne con eleganza dicendo che il testo di una canzone non è ancora poesia ma può essere poetico.
Le copertine di “Allos Enfants”, con un garofano che fa capolino dalla bocca di un fucile, e “Un’altra Italia”, nella quale campeggia una farfalla che ha un’ala di carta stampata, sembrano avere una forte campitura allegorica, così come la stessa cover dell’album…
Mi piace sfruttare i codici dell’arte visiva in soccorso al messaggio musicale, in forza anche del mio amore per la pittura; il potere di sintesi che l’arte visiva ha in sé è straordinario, i tracciati oculari si compiono in un istante davanti ad un’immagine, c’è la totalità subito; nella società instant che viviamo una bella cover è un ottimo bigliettino da visita per le canzoni che via via si scoprono.
Ha detto di “Ego”: “Un progetto pensato a 360 gradi, con canzoni, immagini, scene per prossimi concerti; forse il congiungersi definitivo di tutte le mie esperienze artistiche: musica, teatro, letteratura e pittura.” L’ibridazione di differenti codici espressivi è per lei una disposizione innata o una precisa e ponderata strategia stilistica?
È una lezione che ho appreso da ragazzo al DAMS, a Bologna, dove ho avuto la fortuna di laurearmi con eccellenze come Umberto Eco e Piero Camporesi.
L’ibridazione dei linguaggi, la sinestesia, il pensiero laterale, lì erano regole per la conoscenza e la creatività.
La pratica poi della pittura e del teatro, oltre che della musica, mi ha fatto comprendere tutto quel sistema sottocutaneo che risponde a principi unici, semplicemente declinati poi con un pennello o una penna su superfici differenti. Per quanto mi riguarda, dipingere mi aiuta a scrivere meglio, come concepire uno spettacolo teatrale e dirigere attori mi aiuta nel mio percorso di interprete. Rivendico un non confine tra i vari campi, l’importanza del “tradurre” è per me vitale.