L’intervista
Ferlito: «Il palcoscenico è il mio Virginian…non chiedetemi di scendere!»
di Maria Concetta Trovato
Ho incontrato Giuseppe al bar una mattina di questa fredda decade del mese. Se la gioia di rivedersi dopo lungo tempo è stata tanta, grandi sono stati anche il mio orgoglio e il mio piacere d’intervistarlo a ridosso della sua partenza per Catanzaro, dove lo scorso 23 aprile ha debuttato sulle tavole del Teatro Politeama “Mario Foglietti “con il monologo Novecento di Alessandro Baricco, a chiusura della rassegna “PRO.SA”: uno spettacolo ad alta temperatura emotiva che la redazione di SOund36 ha seguito per voi. Conosciamo dunque meglio chi ha prestato voce e corpo a Tim Tooney, voce monologante dello spettacolo:
Giuseppe Ferlito, classe 1986, ragusano: come e perché arrivi al Teatro?
Fu mia madre, alla quale sarò sempre grato per questo, ad esortarmi a seguire un corso di recitazione e a portarmi al Centro Teatro Studi di Ragusa diretto da Franco Giorgio, che continuo a considerare il mio “papà artistico”. In seguito, dopo il diploma di liceo classico, fui ammesso all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dove mi fu data la possibilità di affinare gli strumenti tecnici che avevo acquisito in precedenza e di lavorare gomito a gomito con i più grandi nomi del Teatro Contemporaneo: come non pensare a Massimo Loreto, il mio insegnante di dizione, grazie al quale ho poi lavorato in RAI, prestando la voce ad alcuni radiodrammi? O a Massimiliano Cividati che ha accompagnato con pazienza e comprensione tutto il mio percorso in Accademia? Conservo anche splendidi ricordi di Giulio Bosetti, Mario Ferrero, Nikolay Karpov, Karina Arutyunyan, Sonia Grandis, Riccardo Pradella, Lindsay Kemp ed Elisabetta Pozzi, un’autentica regina del Teatro. Per il doppiaggio non posso invece dimenticare, tra gli altri, Tonino Accolla e Claudio Sorrentino.
Ancora a proposito di occasioni e di Maestri, raccontaci qualche episodio saliente della tua carriera e della tua formazione…
Uno dei ruoli che ricordo con maggiore soddisfazione, anche perché fu quello d’esordio, giunto a pochissima distanza dal conseguimento del Diploma, è il ruolo di Clotilde in Mamme e narcisi per la regia di Vito Molinari: si trattava di una commedia en travestì, dunque anche molto difficile da interpretare. Un altro momento che ricordo con particolare commozione, sebbene allora fossi ancora soltanto uno studente d’Accademia, è l’incontro con Alda Merini nell’ambito di un recital al Teatro dei Filodrammatici di Milano, in cui mi era stato chiesto di leggere alcune sue poesie: ricordo ancora i Suoi caldi complimenti e l’enorme acume di cui questa singolare creatura era dotata, ma non nego che provai per lei anche una grande tenerezza e che mi colpì quasi come uno schiaffo lo stridore del suo aspetto dimesso, volutamente trascurato, con la grandezza fiammeggiante della sua Anima…
Se dovessi definire la tua fisionomia di attore in tre soli aggettivi, quali sceglieresti?
Fai sempre domande così difficili, tu? (sorride, N.d.R.) Non so se riesco a trovare tre aggettivi e non voglio scadere nella facile piaggeria, ma uno di quelli che mi piacerebbe certamente usare è “autentico”: la gente talvolta pensa che la categoria degli attori sia inaffidabile per definizione; a me questo luogo comune fa molto soffrire e a chi me ne fa oggetto vorrei sempre rispondere che, in realtà, raramente mi sento così vicino alla parte più vera e disarmata di me stesso come quando sono su un palco…il secondo è “vulnerabile”, aggettivo che spesso –erroneamente, a mio parere – si usa come sinonimo di “debole”. Io, invece, sono convinto che ogni forma d’Arte risponda al richiamo di una ferita e che solo da quella ferita si riesca piano piano a tirar fuori quella Bellezza alla luce della quale, dostoevskianamente, si può salvare un pezzetto del proprio mondo. Il terzo e ultimo è “testardo”: sono uno che discute molto e fa molta resistenza prima che un ruolo lo convinca completamente, il che non credo sia esattamente un pregio per un attore… (ride di gusto, N.d. R.).
A quale tra i personaggi che hai interpretato sei più legato? Quale, invece, ha rappresentato per te la sfida più dura?Sembra scontato se dico Tim Tooney? A lui mi lega un rapporto di odio/amore così viscerale e profondo, gli ho dato così tanto di me che quando ne vesto i panni vorrei quasi distaccarmene e quando non lo interpreto ne sento terribilmente la mancanza; quello più difficile è stato il ruolo del pusher di Natura morta in un fosso (un testo teatrale di Fausto Paravidino, incentrato su una sanguinosa vicenda di cronaca nera, N.d.R.) per la regia di Giovanni Arezzo, mio grande Amico e validissimo collega: un emarginato psicotico con una improponibile cresta di capelli verde fosforescente che, per di più, partecipa ad un’indagine per omicidio…l’ho amato intensamente, ma essendo molto distante da me, mi ha messo veramente alla prova! C’è anche una ragione personale che mi lega a quello spettacolo: in quell’occasione ho incontrato per la prima volta la mia compagna Leandra, donna straordinaria e attrice di raro talento, nonché madre attenta e premurosa della nostra piccola Sveva.
Quale occasione lavorativa ti sei pentito di non aver colto? Quale è, invece, quella che ancora aspetti?
Io sono un inguaribile procrastinatore e le occasioni che mi pento di non aver colto, magari perché impegnato in altri lavori che in quel momento mi sembrano più impellenti, sono molte, ma ricordo con particolare rammarico un’occasione in cui rifiutai di prendere parte al Glauco di Pirandello, diretto dal grande Walter Manfrè, un Maestro e un Amico recentemente scomparso. Potrei menzionare, andando più indietro nel tempo, anche il mio rifiuto del ruolo del bandito Giuliano in un cortometraggio milanese sulla mafia: al di là del banale accostamento tra la mia isola d’origine e questo argomento, credo che sarebbe stato interessante, dal punto di vista interpretativo, mettermi alla prova con un ruolo “scomodo “come quello. Non penso spesso alle occasioni future, ché la magia del Teatro consiste nel regalare all’attore un eterno presente, ma non nego che mi piacerebbe tornare in scena con un’altra riduzione (Ferlito ha recentemente curato e interpretato un suggestivo adattamento per il Teatro del romanzo Oceano Mare che ha ricevuto la compiaciuta approvazione dello stesso Baricco, N.d.R.) o con un altro monologo, ma raccogliere l’eredità di Novecento è difficile. A meno che non voglia scrivermi qualcosa tu…
Tu sei anche doppiatore: cosa significa prestare a un personaggio soltanto la propria voce?
Grazie per la domanda, di doppiaggio si parla sempre troppo poco. Credo che dover restituire la fisionomia emotiva di un personaggio e il suo ruolo rispetto al dipanarsi di una trama, dovendo affidarsi solo alla voce sia tecnicamente quasi più impegnativo di una performance completa; immagina la difficoltà di dover, per esempio, simulare un inseguimento in un poliziesco (riproduce l’ansito di una persona che corre, N.d.R.) stando completamente fermo in una sala di doppiaggio e con solo una cuffia alle orecchie…
Tra pochi giorni porterai al Teatro Politeama “Mario Foglietti” di Catanzaro il monologo Novecento di Alessandro Baricco, che vanta numerose repliche nei teatri di tutta Italia: immaginando di dover raccontare questa storia a chi non ha mai letto il libro, su quali aspetti della storia porresti maggiore enfasi? Com’è cambiato, nel corso del tempo, il tuo rapporto con il personaggio che interpreti e con questo testo?
Novecento è un testo che, a vari livelli, mi accompagna sin dall’adolescenza. Mi è difficile isolarne alcuni aspetti rispetto ad altri: quel che mi propongo di raccontare ogni volta che salgo sul palco, però, è essenzialmente la storia di un’Amicizia che nasce e cresce all’ombra della Musica. E spero sempre di restituire al pubblico in platea la sensazione che l’Arte riesca laddove la vita, spesso, fallisce, ovvero nella sublimazione, nel ‘disarmo’, direbbe Baricco, dei desideri. Una parte del monologo che amo molto – anche se ci arrivo stanchissimo! – (ride,n. d. R.) è quella in cui Tim Tooney fa riferimento a un quadro che un giorno, senza alcuna ragione apparente, si stacca dal muro. Ecco: credo che nella vita di ciascuno arrivi un punto di svolta, dopo il quale niente è più lo stesso: il mio è stato l’incontro con il Teatro. E, da allora, il palcoscenico è il mio Virginian, la nave da cui non vorrei mai scendere…
Una nota personale: sei anche genitore. Quale mondo e quale insegnamento, derivante dal tuo mestiere, ti piacerebbe lasciare a tua figlia?
Bella domanda. Senza scadere nella facile retorica, vorrei per mia figlia e per tutti i figli un mondo più “empatico”, dove questa malevola noncuranza verso l’Altro, verso i Suoi desideri e bisogni fosse una sparuta eccezione e non la sconfortante regola: credo sia proprio questo il grande insegnamento del Teatro. La straordinaria opportunità di riscoprirsi autentici impersonando l’Altro da Sé e di ricreare una realtà che faccia della diversità non uno stigma, ma una inesauribile fonte di ricchezza. Come diceva un drammaturgo francese che amo molto, Jacques Copeau, «non nasce teatro laddove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti. E’ lì che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui».
Stante il nostro più che ventennale rapporto d’affetto, permettimi di volgere, in ultimo, uno sguardo al passato: che cosa ti piacerebbe dire oggi al ragazzo che sei stato? In che modo la pratica attoriale ha contribuito a renderti la persona che sei oggi?
Per banale che possa sembrare, gli direi di credere di più in sé stesso e fortificare la sua autostima, perché lo sguardo dell’Altro non sia più una freccia dalla quale è facile essere colpiti e trafitti, ma il principio di una relazione umana fondata sul senso dell’appartenenza a un medesimo destino e sulla risposta a un medesimo bisogno di significazione. In fondo, soprattutto il Teatro, come già la Letteratura e la Musica, che per me rappresenta una inesauribile fonte di ispirazione, insegna che «non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla» ….
L’onda del teatro rompe ogni argine e si fa poetica narrazione vitalistica in “Novecento” di Giuseppe Ferlito. Recensione di Roberta Cricelli
La genuinità di una storia fuori dal comune si fa volano di un’universalità che trascende il tempo e lo spazio per diventare manifesto della fragile e possente meraviglia umana. Potrebbe riassumersi così l’esperienza di catarsi artistica che Giuseppe Ferlito mette in scena con “Novecento” riportando alla sua placenta teatrale l’opera plasmata da Alessandro Baricco nel 1994.
L’attore ragusano (sapientemente guidato alla regia dal maestro catanese Franco Giorgio, nello spettacolo prodotto dal “Centro Teatro Studi Società Cooperativa”) anima il piroscafo che ondeggia tra Europa e Stati Uniti e vestendo poche giacche e tante voci, come un’onda lontana eppure densa di un retrogusto agrodolce ancora contemporaneo, restituisce la miscellanea di esistenze che si avvicendano tra la prua e la poppa del Virginian, cesellandone una sola, quella di Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento. Un nome intriso di una paternità donata, di un grazie immaginato e di un secolo al sapore d’agrume che ha già scritto metà del destino di chi, per osmosi ha sentito germogliare tra le sue ossa neonate, il talento di muoversi con maestria, seguendo il moto oceanico (sua culla sempiterna), sulla caleidoscopica magia che si cela tra il bianco e il nero di 88 tasti, nell’ingenuità costruttiva di chi viaggia restando fermo e assorbendo dalla gente, segni, sguardi e geografie.
È a questo racconto (incorniciato da una scenografia essenziale e dalla colonna sonora composta da Yann Tiersen, Scott Joplin e Randy Newman) di stupore incarnato ma pure di estrema consapevolezza del limite, che Giuseppe Ferlito imprime filigrana corporea con la potenza della parola, specchio ad un tempo, dell’ammissione di finitezza e di impagabile libertà intellettuale e interiore quale forma di eredità.
Ad un solo uomo (l’amico trombettista e narratore Tim Tooney), ad una sola donna (una giovane “trasparente”), ad un manipolo di viaggiatori (gli ospiti e l’equipaggio di una nave), all’inventore del Jazz (Jelly Roll Morton, con cui duella tra note ingenue o vigorose e vibranti sigarette) e ad un padre putativo che ride e muore appagato dall’eco bizzarra delle corse di cavalli (l’allegro addetto fuochista nero, Danny), Novecento affida il proprio concetto di infelicità, per poi disfarsene nella consapevolezza che morire in un microcosmo, seduto su un ordigno della Seconda Guerra Mondiale, acquista più sensatezza rispetto al perdersi tra le infinite scelte del mondo e restarne schiacciato.
Gli echi seri o festosi con cui Ferlito incanta lo spettatore trovano un nucleo espressivo univoco nella personalità di un pianista bambino e poi uomo a cui non importa di essere un vinto o un vincitore, gli basta saper muoversi e desiderare ricalcando la misura del solo perimetro vitale di cui abbia mai fatto esperienza e del quale conosce la fine. Non aver sceso quei “tre gradini” per raggiungere la terra ferma (lo rimarca lucidamente Giuseppe Ferlito con un’inflessione evocativa delle parole e del volto), non è una resa ma un testamento di accettazione del sé, nell’evanescente leggenda (quella di cui Giuseppe Tornatore firmò l’impronta cinematografica) che si fa pragmatismo. Novecento, come ogni uomo o donna, è una creatura imperfetta (migrante, musico, ricco da prima classe o presenza da terza fila, che sia), segnata da incertezze e increspature ma pure custode di un potenziale luminoso, di un’effervescenza e un’intuizione contagiose, di quell’impalpabile, concreta, fortunata “condanna” d’essere umani.
Un compendio di sensazioni che si agita sul palco e sottopelle, quello a cui Giuseppe Ferlito (che di Alessandro Baricco ha già maneggiato teatralmente il romanzo “Oceano Mare” e aspira a completare la trilogia, trasponendo anche “Seta”) offre respiro, facendo calare il sipario del Teatro Politeama “Mario Foglietti” di Catanzaro sulla rassegna “PRO.SA”(“Professionisti spettacolo associati”, il progetto promosso dal teatro catanzarese unitamente al Teatro Del Grillo e all’associazione “Dracma”, in seno ai programmi di distribuzione teatrale voluti da “Rete di teatri”, con il sostegno della Regione Calabria). Un cerchio si chiude, spalancando però gli orizzonti alla riflessione intimista e collettiva per la quale pirandellianamente un solo sibilo si fa veicolo di tanti, moltiplicandosi e fiorendo. In acqua, sulla terra, tra inferno e paradiso, nel cuore di ogni passeggero che si avvicenda sulla nave dell’esistenza e dopo aver vagato di porto in porto (per caso o per scelta) scende e si ferma, consegnando ad uno solo, il capolinea. Con il monologo “Novecento” e insieme al suo pianista, Giuseppe Ferlito non prende nota della partenza o della meta ma cristallizza un percorso e invita a camminare verso l’incompiuta compiutezza esistenziale, sentiero da scrivere e riscrivere finché l’inchiostro non finisce e l’oceano non si prosciuga, accogliendo i viandanti in un magma di immaginifico realismo.