Era nell’aria, si capiva bene sia dal tour che Steven Wilson ha fatto nel 2011 sia dal suo precedente album Grace For Drowing che la sua creatività e la sua energia musicale stava attingendo a nuove fonti, a nuove scelte di percorso artistico.
I vari progetti con i quali si è cimentato negli ultimi anni, sono entrati nelle sue corde, nelle sue orecchie, si sono amalgamate, unite. Sono state assimilate e grazie anche alla band che lo segue sia in studio che nelle esibizioni, queste idee e questa energia creativa ha preso forma in quello che è decisamente il suo capolavoro. The Raven That Refused to Sing è nato praticamente in un anno e registrato in pochissimi mesi insieme alla mano fatata di Alan Parson. La svolta Progressive Rock arriva esattamente con questo album. Accantonate le varie influenze dei quali erano farciti i primi due album, Insurgentes e Grace For Drowing, ora la linea è quella.
Il lavoro effettuato sul catalogo dei King Crimson, dei Jetrho Tull e degli E.L.P lo hanno portato ad essere ora il giusto testimone di quella musica e di quella tendenza musicale che proprio negli anni 70 ha avuto il suo massimo fulgore. E’ strano lo ammetto pensare che nel 2013 un artista debba rifarsi a suoni che erano di quaranta anni fa … però riesce perfettamente nell’intento e crea un album che incredibilmente attraversa questi quaranta anni rendendo il tutto moderno ed attuale.
Il merito è sicuramente anche delle persone scelte ad interpretare questa creatività, Steven è stato arguto e accurato nello scegliere gli strumentisti ed ecco arrivare uno dei più grandi bassisti esistenti, Nick Beggs ( già bassista di Steve Hackett ), Marco Minneman alla batteria ( forse tra i pochi veramente grandi della batteria ), Gutrie Govan alla chitarra che proprio in questo album forse dà il meglio di tutta la sua produzione ( ricordiamo che suonò anche con gli Asia ). Theo Travis al flauto e sax ( cosi tante collaborazioni, tra king crimson, gong e lunghe escursioni nel Jazz ) Adam Holzman alle tastiere ( Michael Petrucciani, Markus Miller ). Come potete vedere grandi nomi e anche grande paura di un enorme flop avendo così tante star dentro uno studio insieme a suonare. Ed invece la Band, carica di energia dal ritorno della tournee, si è così amalgamata da diventare una vera band, un gruppo che suona insieme come se suonasse da anni.
Per la prima volta Steven non ci dà una sovrabbondanza di musica ma solo sei brani, sei racconti, sei perle musicali dove ci si trova a dover separare incredibilmente la parte musicale per gustarla dai testi per ascoltarli e poi unire tutto insieme.
Si inizia con Luminol, brano oramai conosciuto dai Fans perché già provato e ascoltato nel tour del 2011. Uno scambio veloce, nervoso, sincopato tra basso e batteria per poi far entrare quelle tastiere che subito fanno da punto di unione tra il penultimo album di Steven e la decisa strada sonora scelta ora. Cori che ricordano gli Yes e passaggi che possono ricordare i Caravan per arrivare ad un finale mastodontico in aria Genesis.
Drive Home, ci riporta alle sonorità classiche di Steven ai tempi dei Porcupine Tree una classica e bella ballata alla Steven Wilson. Ma è con la spettacolare The Holy drinker, che Steven e gli altri della band danno sfoggio di quello che sanno fare, 10 minuti di folle prog jazz fusion, tiratissimo con un enorme Theo Travis al Sax e Govan alla chitarra. Pura follia musicale, il brano che forse i King Crimson avrebbero dovuto fare da anni. Dentro c’è tutto e senza dubbio posso dire che in questo brano ci sono veramente 40 anni di musica dentro 10 minuti di esecuzione.
The Pin Drop forse è il brano più debole dell’album, pur essendo molto bello, ma le sonorità sono più classicamente Porcupine Tree. Su un album dei Porcupine Tree sarebbe stato un grande brano ma qui sfigura un po’.
The Watchmaker è il punto centrale dell’album quel capolavoro che sinceramente non mi aspettavo. Intima, melodica con il flauto di Theo Travis a incantarci per poi esplodere in maniera folle e schizzofrenica, forse il brano dove Steven e gli altri si esplorano ed esagerano di più, 12 minuti di storia della musica con un assolo di Govan da brividi sulla schiena. Ma appena credi di aver ascoltato il capolavoro dell’anno Steven ci incanta con il brano che dà il titolo all’album The Raven That Refused to Sing, un intro che incredibilmente potrebbe farci tornare alla mente la grande voce e il piano di Tom York dei Radiohead ! ma è con l’andare della composizione che Steven ci guida dentro un universo sonoro con un incedere di tastiere e la chitarra di Govan, semplicemente triste e semplicemente spettacolare. Questa è la parte musicale, mentre la parte dei testi è legata al solo Steven che si inoltra in storie di fantasmi, reali come in The Raven, fantasmi interni come the Holy Drinker per finire con fantasmi di una vita che poteva essere come troviamo in The Watchmaker.
Quindi un capolavoro si, lo possiamo senza ombra di dubbio chiamare un capolavoro. Quei tipi di lavori che capisci subito dalle prime note che lo sarà. Un album da acquistare ad occhi chiusi e che sarà capace di regalarvi ore e ore di assorbimento dentro ad universo sonoro difficile da trovare in altre parti.
Claudio Lodi