Da trent’anni attivo sulla scena musicale del blues e del folk in Italia, Roberto Menabò si è interessato in particolar modo alla tecnica del country blues e della chitarra acustica finger-picking. Puoi darci una spiegazione più dettagliata?
Si, è da quando ero giovane che mi ha sempre attirato la tecnica della chitarra acustica nel blues, ma nella metà degli anni settanta non esistevano video da cui imparare e pochissimo metodo, peraltro introvabili. Allora l’unico modo era di impostare ad orecchio e di carpirne i segreti di quella tecnica, così antica, ma che da noi era pressoché sconosciuta
“Mi diverte suonare blues nei locali che sanno di blues. Il brusio del bancone di chi dice qualcosa ad un suo amico, di chi maledice i preti e il governo o di chi sta guardando con occhi lucidi e avvolgenti le tette della barista non mi turba.”. Questa tua intervista risale al 2019, ma da quando ti seguo, non è cambiato certo il tuo stile…
No, certo, se si suona un tipo di musica calda, accogliente e suadente chinbti sente deve sentirsi a proprio agio. Se un musicista suona in un locale dove si beve e si sta con gli amici il brusio del bancone e il tintinnio dei bicchieri fa parte della musica e non deve inquietarsi
Che ricordi hai del John Wesley Hardin?
I ricordi del locale sono veramente pregnanti e commoventi. Era proprio una bella storia tra ottima e calda musica, ma soprattutto un luogo di incontro tra musicisti e amici che si ritrovavano in armonia. Ecco era sempre una situazione serena, nuova e accattivante e una volta che si scendeva per quella ripida scala vsi entrava in un altro mondo che rilasciava benessere e ti faceva dimenticare almeno per un attimo le brutture quotidiane.
Scrivi anche libri ( Rollin’ and tumblin’. Vite affogate nel blues edito nel 2015 ) dove racconti storie vere, di musicisti che non tutti conoscono, come ad esempio Blin Blake e Jaybird Coleman, ma che riproponi quando suoni dal vivo. Una cosa che mi ha affascinato dal momento in cui ti ho conosciuto al John Wesley Hardin nel lontano 2016.
Si mi è sempre piaciuto informarmi della vita e del mondo in cui vivevano i primi blues singer. Ho letto e consultato, nel corso del tempo, tanto materiale ma soprattutto mi piace inventare delle storie e delle situazioni o episodi sulla loro vita, basandomi però su fatti certi. Quando suono davanti ad un pubblico, specialmente se piccolo, mi diverte un sacco raccontare queste storie cercando con l’affabulazione di rendere ancora più vivo e dinamico il set
Nel 1985 hai pubblicato “A bordo del Conte Biancamano” ebbe un ottimo plauso della critica e che trovo meraviglioso! Ci si immerge nell’ascolto…Ci racconti un po’ di come è nato questo disco?
Si era il periodo che ero appassionato a senso unico della Primitive Guitar, uno stile chitarristico su basi tradizionali messo a punto da John Fahey: un personaggio unico nella storia della chitarra. Era il mio primo disco, andai in uno studio professionale a Torino e in una domenica registrati i brani del long playing. Sono tutti strumentali e a parte due cover sono pezzi miei. Lo trovo ancora adesso un bel prodotto che, senza falsa modestia è ancora piacevole e gradevole
E siamo arrivati al 2020 con l’uscita di “The mountain sessions” Album composto da 14 brani acustici suonati in diretta, proprio come nelle sessions degli anni ’30 in cui si privilegiava un suono caldo e immediato e allo stesso tempo coinvolgente. Nasce sulle montagne, dove da un po’ di tempo ti sei ritirato. Un ritiro non solo spirituale immagino…
No, vivo sull’Appennino da tre anni e sto molto bene. Il paese è piccolo e tranquillo ma soprattutto è il verde e il silenzio della natura che mi affascina e mi corrobora. Non ci avrei creduto comunque anche il mio modo di fare musica è cambiata ed in effetti quest’ultimo, almeno per me, si respira un’aria calda e serena, e nello stesso tempo pieno di vita e ritmo.
Puoi spiegare ai nostri lettori quale differenza passa tra il blues che racconti tu e quello che siamo abituati ad ascoltare? Dal punto di vista dei testi e di quello emotivo. Penso tu abbia capito..
Beh, i testi dei primi blues campagnoli erano soprattutto testi passionali e carnali e una buona parte anche divertenti pieni di doppi sensi e battute salaci. Penso che non si debba suonare il blues pensando di dire chissà quali cose importanti e prendersi poco sul serio.
Anche a te rivolgo la stessa domanda ormai di rito: data la situazione attuale in qui ci troviamo, come vedi il futuro dell’Arte, così tanto bistrattata e da un futuro quanto meno incerto?
Sarà sempre più cosa rara e preziosa, ma non morirà mai.
Grazie Roberto, sei sempre una persona squisita.
Intervista e foto di: Alessandro Corona
Info Roberto Menabò