La sua è una storia che sembra quasi inventata, quelle da romanzo, in cui il protagonista parte dal niente e poi si inventa un impero, una fortuna, pur mantenendo un low profile, nella consapevolezza dei sacrifici fatti e le fatiche affrontate, e forse anche per questo salvandosi dal rischio facile della vanità e dell’ostentazione.
Ha lavorato senza risparmiarsi, ma risparmiando su tutto, facendosi bastare il pochissimo per vivere e andare avanti, e pian piano, mattone su mattone, ha costruito la sua professione, quel regno di contatti, amicizie, intuizioni, notizie, comunicazioni, esclusive, che sono alla base della sua agenzia di pubbliche relazioni “Parole & Dintorni”, riferimento prestigioso di tutti i nomi più importanti della musica leggera e dello spettacolo italiano
Nato nel 1965 a Massaua, in Eritrea, dove la famiglia era emigrata come tanti italiani che cercavano lì una nuova vita e un nuovo lavoro, quando la guerra fra Eritrea e Etiopia si era fatta più pericolosa, incendiando sempre più gli animi e i destini, la famiglia Vitanza tornò in Italia. Riccardo aveva 11 anni: prima tappa a Frosinone, dove papà aveva trovato lavoro alla Fiat. Poi a Roma e poi a Milano, a casa di una zia tedesca mentre si era iscritto all’Università, facoltà di giurisprudenza, perché lui voleva studiare. Ma dopo 5 esami aveva dovuto cercare un lavoro, perché la famiglia aveva bisogno di aiuto.
Ma non sapeva da dove cominciare.
Aveva sempre sognato di fare il giornalista, perché scrivere era la cosa che più gli piaceva, e fin da piccolo leggeva avidamente tutti i giornali italiani che raccontavano le storie e le vite di attori, cantanti, personaggi televisivi, teste coronate e celebrità. Ma avrebbe anche fatto il giornalaio, pur di essere a contatto con quel mondo di parole e pagine e vip. Rispondeva a inserzioni per qualsiasi lavoro, e finalmente arrivò in una piccolissima agenzia pubblicitaria come copywriter. Pochissimi soldi, che doveva arrotondare con tutto quello che capitava.
Era la fine dei sogni?
No, l’inizio vero, pure se con tanti sacrifici. Papà benzinaio, mamma casalinga, fratelli operai. Io ero quello che inseguiva la cultura, pur non sapendo dove potessi arrivare. Per questo avevo scelto Milano, la città più aperta per costruire un futuro. Desideravo tanto e avevo pochissimo. La prima bicicletta a 18 anni, la prima casa una specie di buco in cui vivevo con due ragazzi calabresi che come me studiavano e lavoravano. Dopo l’agenzia pubblicitaria, cominciai a occuparmi dell’ufficio stampa dello Zimba, il primo locale di musica latino-caraibica in Italia, da cui nacque anche il magazine su cui scrivevo. Erano gli anni del reggae, Bob Marley aveva trionfato a San Siro, Fela Kuti veniva a esibirsi e si portava dietro 27 mogli, il locale era piccolo e sempre pieno, e la gente fuori faceva la fila. Era un posto di tendenza, dove arrivavano calciatori, intellettuali, architetti, i nuovi personaggi della moda, i giornalisti, le radio, le televisioni, e io mi rapportavo con loro. E’ stata la mia scuola professionale e di vita.
E come sei arrivato agli artisti da primi posti in classifica?
Con tutta l’esperienza nella world music di quegli anni, è stato un passaggio quasi naturale: il primo artista che ho seguito come ufficio stampa è stato Ziggy Marley, il figlio di Bob, nel suo primo tour italiano. Poi i Ramones nell’ultimo tour nel nostro Paese, e Public Enemy, Beasty Boys, Ice Cube, Jamiroquai, Cranberryes e tanti artisti stranieri che venivano da noi per i concerti organizzati da Trident, che mi affidava la comunicazione. Poi arrivarono Pino Daniele, Jovanotti e Giorgia, e dal mio piccolissimo ufficio di 20 metri quadri con soppalco, ormai troppo pieno di carte, giornali, manifesti, foto, macchina da scrivere, fotocopiatrice e computer, traslocai in via Stradivari, vicino a Piazzale Loreto, terzo piano di un vecchio palazzo senza ascensore, tante scale come per arrivare al successo. Lì è nata Parole & Dintorni, dove ho visto crescere tanti artisti saliti su quelle scale, chi già famoso e in cerca di qualcuno che lo seguisse nei rapporti con la stampa, ma anche chi veniva nella speranza di trovare con noi il suo pezzetto di storia e di gloria. E l’indirizzo non è mai cambiato. E siamo sempre senza ascensore.
Quali sono i nomi di punta?
Ligabue, De Gregori, Baglioni, Zucchero, Nannini, Venditti, Zero, Il Volo, Elisa, Emma, Pelù, Mannoia, Ruggeri, Tozzi, Masini, Raf, PFM… oddio, mi sembra un elenco telefonico, e non vorrei fare torto a chi tralascio, solo per questione di spazio.
Direi che ci sono tutti, e ne sono orgoglioso, anche perché nel tempo il rapporto di lavoro è diventato di amicizia, un valore importante in un mondo apparentemente frivolo.
Qualche delusione?
Forse, più amarezza, una specie di ferita che poi si è rimarginata, perché la vita è anche questa… Avevo conosciuto Giovanni Allevi quando suonava le tastiere in tour con Jovanotti. Pensavano a progetti musicali insieme, ma quando Lorenzo chiuse la sua etichetta, Soleluna, Giovanni era rimasto senza lavoro, con la valigia pronta per tornare ad Ascoli Piceno. Avevo ascoltato alcuni suoi pezzi al pianoforte, e ho prodotto il suo primo disco, convinto della sua bravura e anche delle sue potenzialità come personaggio, con tutti quei buffi capelli spettinati, l’eterna felpa informe, il sorriso infantile, i movimenti dinoccolati. Con una storia ben costruita, anche per certe esibizioni americane che ero riuscito a combinare con l’Ambasciata degli Stati Uniti, un artista di formazione classica e arrivato alla platea del pop, conquistò subito i giornali, la tv, la pubblicità e il pubblico più vasto. Mi sentivo orgoglioso di quei risultati e di quel successo, ma lui aveva anche un diploma come direttore d’orchestra, e la moglie voleva che lui si staccasse da quell’immagine e da quell’immaginario popolare, e che cominciasse ad affermarsi in un’altra direzione, per poi arrivare alla Scala… Alla vigilia di un Natale, vennero nel mio ufficio per chiudere il contratto. Però Giovanni, sul palco della Scala, non l’ho ancora visto.
Come produttore, chi ti ha dato soddisfazioni?
Due cantautori, che scrivono anche per altri artisti: Pacifico e Niccolò Agliardi. Il primo, fra le tante canzoni, ha scritto “Sei nell’anima”, di Gianna Nannini, “Imparare ad amarsi” di Ornella Vanoni, e “Gli anni davanti”, il suo ultimo pezzo scelto nella colonna sonora di “Genitori vs influencer”. Niccolò ha lavorato molto con Laura Pausini, ed è l’autore di “Io sì” con cui lei era candidata all’Oscar per la migliore canzone straniera nel film “La vita davanti a sé” con Sophia Loren. L’Oscar non l’ha vinto, ma il Golden Globe sì, e anche il Nastro d’Argento.
Come scegli i tuoi collaboratori?
Alcuni da un curriculum arrivato nella posta, altri sono studenti dei miei corsi di Comunicazione e Spettacolo che tengo all’Università Cattolica di Milano: quando andavano bene li ho assunti tutti, perché mio padre mi ha insegnato a dare valore al lavoro, e la precarietà è un aspetto deleterio, che destabilizza i giovani e la società tutta. Oggi nel mio team ci sono 15 persone, tutti grandi professionisti, e nel tempo sono felice di averne formati tanti che poi sono passati in case discografiche e società di produzione, riconoscendo con gratitudine la formazione e l’esperienza che hanno avuto con me.
Il tuo domani?
Quando deciderò che la vita mi chiama da un’altra parte, regalerò la mia società ai miei collaboratori, che l’hanno fatta grande insieme a me, ragazzi e soprattutto ragazze che hanno lavorato e lavorano tanto, a cui sono sempre riconoscente perché ne riconosco l’impegno. Quel giorno, quando mi ritirerò dal rutilante mondo dello spettacolo, mi piacerebbe tornare dove sono nato, a Massaua, in una casetta davanti al mare, in compagnia di pensieri e ricordi. Perché in fondo all’anima musicale sovraffollata di parole e dintorni, c’è sempre un po’ di mal d’Africa…