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Quatsch (Sognati dal futuro) Anno 1 N. 8

Scritto da Stefania Pucci

La storia di un cavallo blu di nome Marco, strano cavallo di Troia pieno di speranze e costruito dai “matti” 40 anni fa

Il cavallo era enorme e bellissimo. Azzurro, lo avevano voluto azzurro. Come il cielo, fuori dalle sbarre, come il mare, nei loro sogni di libertà. E grande, grandissimo, per contenere tutti i loro desideri, le loro aspirazioni, le speranze di un futuro che esisteva solo nella pancia di un cavallo.
C’erano le case dell’infanzia, il calore del focolare, c’era quell’amore dimenticato tanti anni fa, c’erano i viaggi immaginati e mai compiuti, c’erano gli amici perduti negli anni. E c’era un orologio. L’orologio di Dino Tinta. Aveva vent’anni Tinta, la gran parte dei quali passata per istituti. Nato alla fine dell’occupazione alleata a Trieste, Tinta aveva gli occhi vivaci e il pensiero veloce. Ma la società l’aveva etichettato. Come “folle” come “deficiente” come “matto”. E costretto a una vita in manicomio.
È il 1973, Vittorio Basaglia, cugino del più celebre Franco, e Giuliano Scabia, amico e drammaturgo hanno un sogno enorme. Sognano di portare fuori dalle mura del manicomio di Trieste i sogni, le storie e le speranze dei pazienti. È per realizzare questo sogno che i due, aiutati da un collettivo di artisti, realizzano un cavallo di legno e cartapesta alto 4 metri. Un cavallo erede e figlio di un altro cavallo, questa volta vero, il cavallo Marco. Marco era, dal 1959, adibito al traino del carretto della lavanderia, dei rifiuti e del trasporto di materiale vario all’interno del manicomio. Per Marco, ormai vecchio e acciaccato, era prevista la macellazione. Ma i “matti” la pensavano in maniera diversa. Marco era amico loro, era l’orecchio al quale sussurravano i loro desideri, era il muso che accarezzavano quando il bisogno di calore umano si faceva impellente.
I “matti” decisero di scrivere allora una lettera all’allora presidente della provincia di Trieste Michele Zanetti. La lettera era scritta in prima persona, da Marco appunto, e chiedeva che, invece che macellato, Marco venisse “pensionato” all’interno della struttura, in onore del lavoro svolto e dell’affetto che degenti e personale sanitario nutrivano dei confronti dell’animale. I pazienti in cambio offrivano una somma pari al ricavato della vendita per la macellazione e di farsi carico in toto delle spese di mantenimento vita (del cavallo) natural durante. Incredibilmente le autorità acconsentirono in toto alla richiesta e fu questa inaspettata apertura del mondo esterno nei confronti del manicomio a scatenare la fantasia di Basaglia e Scabia e a dar loro il coraggio di farsi carico delle istanze dei “malati”.
Il Marco di cartapesta venne creato nei laboratori dell’Ospedale. I matti non parteciparono materialmente alla sua costruzione ma Marco era in tutto e per tutto una loro creatura. Ne decisero il colore, quell’azzurro che trovavano solo nei loro sogni, e decisero che la pancia del cavallo avrebbe contenuto i loro sogni, le loro speranze, i loro desideri.
Il 18 Marzo 1973 era domenica. Una domenica limpida, resa chiara dalla bora che aveva invaso Trieste nei giorni precedenti. Era il giorno in cui Marco doveva uscire dal manicomio e andare incontro al mondo. Nessuno però aveva calcolato il problema più banale. Le porte. Le porte del manicomio, tutte, erano troppo piccole e strette perché un’installazione di 4 metri riuscisse a uscire. Si provò a sdraiarlo, a piegarlo, a metterlo di taglio o pancia a terra. Non esisteva soluzione. Per i “matti” le nubi cominciarono ad addensarsi, nere di un nero profondo. Era stato un sogno, forse, quest’afflato di libertà? Era tutto un delirio di illusi e schizofrenici pensare che quel messaggio di pace e inclusione, proveniente da un luogo buio e doloroso in cui regnano guerra ed esclusione, potesse uscire nel mondo col suo carico di sogni e speranze?
Fu Dino Tinta ad avere l’idea “Che sfondi le porte!” urlò. I suoi compagni si guardarono, incerti e attoniti. Ma è possibile che un trabiccolo di cartapesta riesca a sfondare questa prigione di cemento e mattoni? E poi? Che sarà di noi? Chi ci proteggerà dall’ira di coloro che dovrebbero aiutarci? Chi ci proteggerà dal mondo quando Marco avrà abbattuto le barriere?
Ma Dino era deciso, perfettamente convinto che Marco avrebbe compiuto il miracolo. E Marco, forse, nel suo animo di legno e cartapesta, sentì quel desiderio profondo. E iniziò a fremere. E abbassò la testa e prese la rincorsa verso la porta principale. E si sgretolarono i vetri, e caddero i calcinacci, e esplosero i muri. E Marco corse verso il cielo, corse verso il mare, corse, come nessuno mai, verso il mondo. E Dino correva con lui, ed era felice, e, in quel momento, per la prima volta nella sua vita, era libero.
La prima uscita in città di Marco Cavallo ebbe il gusto, feroce, del paradosso. Da allora Marco esiste nel mondo, simbolo mai sopito di libertà. Quella libertà che non muore mai, nemmeno in teste annebbiate, nemmeno dentro le mura più spesse. E quella carica di libertà che Marco, il cavallo blu, strano cavallo di Troia pieno di speranze, è stata costruita dai “matti” 40 anni fa.

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