L’anno dell’inazione. L’anno del rifiuto, dell’assenza di stimoli, della mancanza feroce di corpi da abbracciare, di pelle da toccare mi hanno allontanata dalla realtà. Cos’è la realtà? Dove sono i miei confini in quest’esperienza espansa di solitudine? Dove finisce il mio corpo, dove finisce il mio sapere, il mio essere, dove inizia l’altro? Cosa c’è di reale? Cos’è la “realtà”? Esiste? O è un’immagine sintetica creata dalla mia mente stanca per la sola ragione di uscire da me stessa.
Esiste. La realtà esiste. E io ne avverto il peso, ne avverto il corpo caldo contro di me. Solo che non riesco a smuoverla, non riesco a modificarla. Ho il dubbio di essere io a non esistere davvero, a non essere reale, a non avere significato. Che io ci sia o no è ininfluente. Altri agiscono, altri decidono.
In un esperimento descritto da Henry Laborit, biologo e filosofo francese, ci sono tre gabbie e tre topi. Ai tre vengono somministrate scosse elettriche in maniera crudele, arbitraria e casuale. Il primo topo ha la possibilità di uscire dalla gabbia. Il secondo non può uscire, ma gli è stato affiancato un suo simile, sul quale sfogare rabbia, paura e frustrazione. Il terzo non ha nessuna di queste possibilità. E’ chiuso nella gabbia e solo, a fronteggiare la paura e il dolore. Sottoposti a controlli, i primi due non accusano sintomi. Al terzo vengono invece diagnosticate perdita di pelo, ipertensione arteriosa e ulcera gastrica: l’impossibilità di agire fa ammalare.
I filosofi dicono che l’umano è tale solo se ha facoltà di agire e di esistere in mezzo agli altri, altrimenti è puro metabolismo, biologia, animalità.
Quando Nicola mi ha proposto questa immagine per la copertina della settimana, mi ha anche raccontato cosa essa rappresentasse per lui.
“Questo è un esperimento di fuga” hai detto “Una corsa da se stessi o verso se stessi. È l’inverno dentro, anche se fuori è primavera, è accucciarsi dentro il proprio dolore. Per leccare le ferite, per balzare avanti, per esplodere da se stessi. Per risorgere”
Ho imparato a fuggire nella vita, sono scappata migliaia di volte. Da uomini che non amavo, da situazioni che non capivo, da esperienze che mi causavano dolore. Ho imparato, negli anni e con gli anni, che posso fuggire da tutto. Non da me stessa. Posso essere immensamente crudele con me, posso colpirmi, ferirmi, posso strappare la mia pelle in mille modi diversi, lacerarla fino a far sgorgare il sangue. Non posso abbandonarmi. Posso reinventarmi, posso creare maschere, indossarle, rendermi irriconoscibile a chiunque. Non a me. Il mio nodo fattuale, l’immagine stessa della mia essenza è il bagaglio che mi porto dietro. È il disegno della mia anima, è la ruga sul mio volto, è il graffio sul mio seno.
Ancora Henri Laborit. Laborit nel 1972 ha scritto un libro bellissimo, essenziale a chiunque, intitolato Elogio della Fuga.
In questo saggio, a tratti straniante e spesso surreale, l’esperienza umana è narrata dagli occhi del fuggitivo. L’amore, la fede, la cultura, la passione, da ogni sentimento ed esperienza si può e si deve fuggire. Dentro noi stessi, esplorando le vie traverse della nostra stessa anima, conoscendo luoghi di noi mai scoperti prima. Il viaggio dentro il nostro io più profondo è un ritorno alla nostra natura animale e sanguigna, diventa l’essenza stessa della fuga, significato e significante dell’arte di fuggire.
Siamo umani perché siamo in fuga, siamo in fuga perché siamo umani
Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio
Henri Laborit – Elogio della Fuga
P.S. Nemmeno una settimana fa 130 persone hanno perso la vita a pochi chilometri da noi e dai nostri comodi rifugi, nell’indifferenza e nell’inazione generale. Anche quella barca si chiamava Desiderio. Anche quella era una via di fuga. A loro il nostro amore, il nostro dolore, il nostro ricordo
Editoriale di Stefania Pucci
Copertina di Nicola Braga
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In questo numero gli articoli di:
– L’universo espressivo, Trailer Quatsch n. 3 di Kay Elle
– Ulisse 1969, Esperimento #1 di Alessandra Fenizi
– I soliti ignudi, de L’Eremita Osservatore
– 504, poesia di Red Sheep – Illustrazione di Caroline Freddi
– In memoria di Woepke Kleinhoek, lo scienziato che sapeva quando tacere. Di Massimiliano Bellavista
– Depeche Mode, All I ever wanted. Di Sylvie Freddi