Recensioni

Poker Sound: 4 album “In or Out” dell’Hard&Heavy

Scritto da Marco Restelli

In Poker Sound vi parleremo di quattro band Hard Rock/Heavy Metal di successo planetario che, a un certo punto, puntarono su “un nuovo cavallo“, prendendo il rischio di sostituire il proprio cantante.

Nella storia di alcune grandi Rock band ci sono momenti che potremmo definire cruciali. In particolare, mi riferisco a quei periodi di crisi durante i quali alcuni dei loro membri fondamentali (l’autore dei brani più importanti, il leader carismatico o il cantante) siano stati costretti, da parte degli altri membri o da eventi tragici, a lasciare il gruppo. Ho così pensato di dedicare una puntata della nostra rubrica Poker Sound concentrandomi su quattro band Hard Rock/Heavy Metal di successo planetario che, a un certo punto, puntarono tutto ciò che avevano su “un nuovo cavallo“, prendendo il rischio di sostituire il proprio cantante.

1. DEEP PURPLE – DEEP PURPLE IN ROCK (Evans / Gillan)

I Deep Purple del chitarrista Ritchie Blackmore e del tastierista Jon Lord esordirono nel 1968 con Shades of Deep Purple che in line up vedeva alla voce Rod Evans. Nei due anni successivi diedero alle stampe altri due dischi, ma il grande successo soprattutto in Inghilterra tardava a concretizzarsi (il terzo album Deep Purple, del 1969, raggiunse solo la posizione n. 162) e così iniziarono le ricerche per un nuovo frontman. La scelta ricadde su un vero e proprio virtuoso della voce come Ian Gillan (militante negli Episode Six) che, a differenza del predecessore, contribuì notevolmente alle fortune del gruppo. L’album Deep Purple In Rock (del 1970) è un disco leggendario sin dalla sua mitica copertina nella quale i volti dei 5 membri della band (completata da Roger Glover al basso e Ian Paice alla batteria) appaiono scolpiti nella roccia sul Monte Rushmore al posto dei quattro presidenti americani (Washington / Jefferson / Roosvelt / Lincoln). Quello fu solo un elemento estetico certamente indovinato, ma ciò che comportò realmente il salto di qualità furono da una parte una track list molto più hard rock, dall’altra i vocalizzi strepitosi del nuovo arrivato con 7 canzoni “rocciose” come la scatenate Speed King, Flight of the rat e la cavalcata progressive di oltre 10 minuti Child in Time. La band inglese così formata continuerà a lasciare un segno indelebile, pubblicando ancora Fireball (1971) e Machine head (che contiene Smoke on the water, il cui riff resta forse il più celebre di sempre di questo genere) nonché il live irripetibile del relativo tour Live in Japan (entrambi del 1972). I Deep Purple dopo Who we think we are (1973) cambieranno ancora formazione sostituendo Gillan con due pezzi da novanta come David Coverdale e Glenn Hughes (l’era denominata Mark III) ma, nonostante ottimi dischi di successo come Burn (1974) e Stormbringer (1975) dalle accentuate sfumature funk, non raggiungeranno più quella che dalla maggior parte della critica e dei loro fan è considerata la loro Golden Age.

2. BLACK SABBATH – HEAVEN AND HELL (Ozzy / Dio)

A differenza dei Deep Purple i Black Sabbath arrivarono, nel 1978, al loro ottavo album (Never say die) dopo aver già raggiunto un grande successo mondiale con i primi due “LP capolavoro” (Black Sabbath e Paranoid, entrambi del 1970), tanto da essere considerati i padri dell’Heavy Metal. Tuttavia, l’aria all’interno della band era ormai diventata pesante e Ozzy Osbourne fu di fatto allontanato dagli altri tre membri (il chitarrista Tony Iommi, il bassista Terry “Geezer” Butler e il batterista Bill Ward) perché chiaramente orientato verso una prossima carriera solista. Orfani di un peso massimo come the Prince of Darkness, non era facile pensare a un cantante che potesse riportare in auge il nome della band, ormai in evidente declino artistico, e così Iommi propose di scommettere sull’ormai ex Rainbow (seconda band di Ritchie Blackmore, una volta lasciati i Deep Purple) Ronnie James Dio di New York, il quale finirà per scrivere anche tutti i testi del nuovo disco. Si stabilì subito l’alchimia giusta in studio e la prima canzone provata fu Children of the sea che dopo un intro da ballata, ruggisce presto in un crescendo hard rock dal sapore epico. Proprio come Heaven and hell che nella track list finale chiuderà alla grande il primo lato e che contiene l’assolo da molti considerato come il più bello di tutta la carriera di Iommi. Il buon lavoro iniziale sui nuovi pezzi fatto dai colleghi piacque molto a Butler spingendolo a non lasciare più la band, come inizialmente deciso per motivi personali, e il brano che più lo colpì fu Die Young basato su repentini cambi di ritmo, che passano in pochi secondi da calmi a indiavolati. La chiusura con l’heavy blues ipnotico di Lonely is the world incornicia un disco che ogni amante del rock dovrebbe avere nella propria collezione.

3. AC/DC – BACK IN BLACK (Scott / Johnson)

Il cambio di line up che gli australiani Ac/Dc dovettero forzatamente operare per salvare la propria band fu molto diversa rispetto a quello delle due band sopra citate. Il loro successo, con lo splendido Highway to hell nel 1979, aveva raggiunto l’apice assoluto e per nessuna ragione avrebbero voluto cambiare il carismatico cantante Bon Scott che, tuttavia, il 15 febbraio del 1980 perse la vita, dopo una notte di eccessi sfrenati a base di alchool. Una tragedia del genere avrebbe ucciso anche un elefante, ma Angus Young e compagni ritennero che il disco successivo avrebbe dovuto essere una celebrazione del loro compagno scomparso. La scelta ricadde volutamente su un cantante stilisticamente diverso: il maturo trentaduenne Brian Johnson, frontman dei semisconosciuti Geordie (di Newcastle) che conosceva poco gli Ac/Dc, pur avendo già cantato live, con soddisfazione, la cover di Whole Lotta Rosie. Il suo nome fu scelto grazie ad una serie di coincidenze: in primis lo stesso Scott aveva tessuto le sue lodi dopo averlo sentito cantare dal vivo, inoltre un fan di Cleveland aveva inviato al management un disco dei Geordie, subito dopo la morte di Scott, per invitarli ad ascoltarlo ed infine il loro produttore John “Mutt” Lange aveva consigliato vivamente di prenderlo in seria considerazione. Le registrazioni di Back in black si svolsero sull’isola di Nassau, nelle Bahamas, e la track list che ne uscì (10 brani in tutto) fu letteralmente esplosiva. Il disco contiene grandi classici, come l’apertura di Hell bells, con le iniziali campane a lutto sullo sfondo – dedicate al collega scomparso ed in linea con la geniale copertina completamente nera – che lasciano presto spazio ai riff di Young. Il brano più famoso è senza dubbio la strepitosa e radiofonica You shook me all night long, ma Shoot to thrill e la title track, non sono affatto da meno. Nessun pezzo è da considerare filler e tutti i brani – che parlano soprattutto di sesso sfrenato senza peli sulla lingua – avrebbero meritato di essere singoli. Nato da una grande perdita, Back in black finirà per essere l’album hard rock più venduto della storia.

4. IRON MAIDEN – THE NUMBER OF THE BEAST (Di’Anno / Dickinson)

L’ultimo asso da giocare del nostro ideale Poker è dedicato agli Iron Maiden capitanati dal loro bassista Steve Harris. Nonostante il buon successo dei due iniziali album Iron Maiden (1980) e Killers (1981) la band prese la difficile decisione di “licenziare” il cantante Paul Di’Anno – dal carattere tutt’altro che facile – per cambiare direzione e tentare il grande salto al quale ambivano fortemente: diventare i primi della classe. La pressione per il nuovo disco era alta, ma di nuove canzoni, ormai senza un frontman, neanche l’ombra. Il provino fu fatto al giovane Bruce Dickinson (ex voce dei Samson) che cantando alla perfezione i quattro brani iniziali del loro omonimo disco d’esordio convinse tutti a catapultarlo in studio di registrazione per iniziare a dar vita all’ album che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia di questo genere: The number of the beast. Il disco regala momenti memorabili con episodi incredibili come la storia narrata in 22 Acacia Avenue (un uomo che vuole salvare una prostituta dalla sua squallida vita), l’arrembante Run to the hills, la strepitosa chiusura di Hallowed by the name, ma soprattutto l’epica The Number of the beast che resterà il loro cavallo di battaglia. Il tour americano che ne seguì li portò al grande successo ampiamente rincorso, ma non mancarono le inevitabili polemiche di chi volle affibbiargli l’etichetta di “satanisti”. Da quel momento la loro carriera fu lanciata come un bolide su un’autostrada e il loro nome è ormai scritto per sempre nell’Olimpo del Rock.

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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