Interviste

Maurizio Petrelli

Scritto da Red

Ho intitolato l’album “Scrivo canzoni per mosche e zanzare” perché ho immaginato che almeno loro in una solitaria notte d’estate siano costrette ad ascoltarmi. O forse no? Magari fuggono anche loro, in silenzio, per non offendermi.

di Ginevra Tasca

Ciao Maurizio, la prima domanda che ti faccio è sul titolo del tuo nuovo album. Puoi spiegarci il significato?
Il titolo è ovviamente ironico, ma non polemico. La musica cosiddetta mainstream, che da un po’ di anni monopolizza i media, proviene in gran parte dai generi rap e trap, tranne alcune eccezioni. Ed è sacrosanto che ogni generazione abbia la “sua” musica. Quella che compongo e registro io, ovvero la musica scritta sul pentagramma, la canzone “classica” nel senso nobile del termine, fondata su melodia armonia e ritmo, suonata da musicisti in studio e non programmata in un computer, pare non interessare più e di conseguenza non trova quasi nessuno spazio sui media. Sono però fermamente convinto che ci sia un pubblico al quale possa piacere, (proprio in quanto classica, fuori dalle mode del momento), ma quando compongo e scrivo ho spesso la sensazione che a quel pubblico non riuscirò ad arrivare. Ho intitolato l’album “Scrivo canzoni per mosche e zanzare” perché ho immaginato che almeno loro in una solitaria notte d’estate siano costrette ad ascoltarmi. O forse no? Magari fuggono anche loro, in silenzio, per non offendermi.

Come ha influito il Covid e i due anni di lockdown nella composizione della tua musica? E’ cambiato qualcosa?
Come credo sia capitato a tutti noi, ho speso i 2 anni di isolamento riflettendo su quali fossero le cose che contano davvero nel nostro percorso di vita. Domande che ognuno di noi si è inevitabilmente posto perché ciò che abbiamo vissuto ha fatto traballare tante certezze e ha creato una profonda insicurezza sulle prospettive della nostra vita futura. Il suono dell’album è meno ridondante, meno spinto di quelli che avevo registrato in passato, avvalendomi della big band. Le atmosfere sono più raccolte, intime e credo in sintonia con il periodo.

E’ cambiato qualcosa anche a livello di contenuto dei tuoi testi?
Credo di aver scritto canzoni più introspettive, anche se immediate, venute di getto e non troppo ragionate. L’emozione ha prevalso sul resto, anche se in qualche episodio del disco non mancano ironia ed allegria, che sono una compensazione necessaria.

Sei musicista, compositore e cantante. Come definiresti il tuo sound?
Il mio sound nei primi due precedenti album, era molto incentrato sui brass, sul ritmo simil-swing, slow, molto prossimo alle sonorità da Big band. In questo caso il processo realizzativo è rimasto quello dell’avvalersi di arrangiatori e musicisti di talento ed esperienza, ma artisticamente si distacca dal genere big band/ jazz orchestra.

La tua carriera musicale inizia negli anni ’60…è un mondo quello che non esiste più o ancora permane in qualche modo?
Credo che ci siano belle canzoni e canzoni mediocri, indipendentemente dal genere che gli si attribuisce.
C’è la buona musica e la musica mediocre. Quella destinata a sopravvivere nel tempo e quella destinata ad esaurirsi nello spazio di un paio d’anni. Il pubblico prende quello che gli arriva ed è chiaro che se i media ti bombardano dalla mattina alla sera con le solite 50 canzoni, per la maggior parte delle persone quella è la sola musica che esiste

Sei direttore artistico del JAF – Jazz Around Festival, con quale obiettivo lo hai ideato?
Con l’obiettivo di dare spazio e visibilità ad Artisti che abbiano un vero talento, che propongano progetti originali ed interessanti e che siano ignorati dai media. Puoi immaginare quanto sia difficile portare avanti un discorso del genere. Anche nel circuito dei Festival del Jazz, se ci fai caso, suonano sempre gli stessi artisti con progetti differenti.

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