Interviste

Massimo Pari (Freak Show)

“Stand up” è il nostro manifesto ecologista

Prima di introdurre il nuovo singolo Stand up ci puoi spiegare come nasce il gruppo Freak Show e se ci sono dei riferimenti allo “strano e diverso” che nasce come movimento all’inizio del ventesimo secolo in America e Inghilterra?
Il gruppo nasce nel settembre 2015, a seguito (è banale, lo so) di un annuncio trovato in rete. Tuttavia, la “chimica” si rivelò subito: cominciammo a scrivere pezzi originali e sembrava funzionassero bene. In seguito, la line-up si è modificata ma il concetto alla base del sound è rimasto quello. Non c’è nessun riferimento all’accezione antica di Freak Show, intesa come spettacoli grotteschi itineranti. C’è invece più attinenza con il significato attuale, cioè quelle trasmissioni in cui regna la confusione e che, quando finiscono, lo spettatore non ha capito nulla. Se applichiamo questo concetto a noi, ci piaceva questa voglia anarchica di fare quel che ci pareva, senza dare retta a chi ci diceva che sarebbe convenuto cantare in italiano, ad esempio. Se un giorno faremo un pezzo in italiano sarà perché ne avremo voglia e non per sottostare alle regole di un mercato. Di queste presunte regole, in Italia, ne circolano un sacco; noi riteniamo che siano solo un recinto mentale, non abbiano alcun riscontro nel mondo reale ma siano piuttosto come le leggende metropolitane, storie che acquistano sostanza perché vengono ripetute da un gran numero di persone. L’artista, per sua natura, dovrebbe andare contro questi schemi precotti. Vabbè, la termino qui se no, su questo argomento, potrei scrivere un libro.

Ora la curiosità è tutta per il singolo che con notevole ritardo è uscito su tutte le piattaforme più importanti. Raccontaci come nasce e perché una cover così esplosiva!
Il ritardo è dovuto alla pandemia e al fatto che, non avendo una major alle spalle che sponsorizza il progetto, dobbiamo fare tutto con le nostre forze. Fosse stato per noi, l’avremmo pubblicata il giorno dopo averla scritta ma la musica non è un comparto particolarmente veloce e, per fortuna, non ha neanche data di scadenza. Quindi, è vero, il pezzo ha avuto bisogno di tempo per andare a maturazione ma non ha perso un grammo della sua comunicatività.
Stand Up è nata in scooter. In tangenziale, tra l’uscita 4 e la 5, per la precisione. Io non ho un’auto e mi muovo in motorino: canticchiare dentro il casco è fantastico, c’è un ambiente pazzesco, e poi ti tieni compagnia, non potendo ascoltare la radio. Il ritornello apparve improvvisamente e già completo mentre tornavo a casa, una sera; mi sembrava avesse del potenziale così mi fermai in corsia di emergenza e registrai la linea melodica sul telefono. Il giorno dopo la feci sentire al gruppo e la finimmo nella versione che potete sentire e che è l’unica che esiste.
La cover rappresenta il pianeta in fiamme, il pezzo parla di riscaldamento globale, l’accostamento è palese. In questo senso, è il nostro pezzo ecologista.

Stand up nasce come un urlo verso questo mondo impazzito che corre troppo veloce e che scollega l’umanità. Rimane però un brano ritmico, quindi scatena il ballo. Trovo interessante questa vostra proposta; una cosa simile l’ho vista recentemente al concerto di Kinga Glyk, anche lei attraverso la musica chiede attenzione al mondo.
Kinga è veramente un fenomeno. Giovanissima, ha una padronanza del groove e delle ghost notes davvero impressionante. E poi suona ridendo, che è una cosa fantastica perché stai comunicando, senza bisogno di parole, la quantità di energia positiva che la musica è capace di scatenare. La musica è un’arte particolare: ti entra dentro, fisicamente, intendo, e ti scuote come una bambola. E’ potente, molto potente, e alla portata di tutti, non c’è bisogno di capirla, di interpretarla. Il funk in particolare riesce a farti muovere anche se non vuoi, ti scopri a battere un piede, scuotere la testa, e, se sei uno dei musicisti, è pressoché impossibile stare fermi. Ma questo è solo il mezzo attraverso cui, se vuoi, puoi veicolare un messaggio che non per forza deve essere allegro o leggero; noi abbiamo utilizzato Stand Up per parlare di cambiamento climatico. Tanti artisti usano questa dicotomia, anche nella musica leggera. Gli Abba, ad esempio, scrivevano in questa maniera.

La musica come l’Arte in generale ha un grande potere di unire le masse, ma non sempre viene capita; a volte è più forte l’impatto televisivo che quello del palco. Stand up che tipo di collegamento ha all’interno della vostra esperienza musicale?
Per rispondere a questa domanda in modo completo potrei scrivere il secondo libro. Cerco di riassumere.
Quello che vedo io è un sempre più scarso interesse per il live in quanto tale, soprattutto da parte dei più giovani. Il live lo si va a vedere se il personaggio è già noto, altrimenti non se ne parla proprio. Si giunge così al paradosso che qualcuno ottiene un enorme notorietà da un giorno all’altro solo perché, fortuitamente, ha usufruito di un passaggio tv, su una trasmissione qualunque. Il giorno dopo si trova catapultato su un palco di fronte a migliaia di persone a fare qualcosa per cui non è pronto, perché alle spalle non ha anni di piccoli palchi, di gavetta.
Il circolo vizioso si autoalimenta: il mediocre viene percepito come standard di qualità e i produttori fanno la gara al ribasso per assomigliare il più possibile al nuovo riferimento. E allora giù con le basi – ormai non c’è più un grande palco che ne faccia a meno – e i musicisti che hanno studiato una vita si demotivano e vanno a fare altro. Ne conosco parecchi, purtroppo.
Io non ce l’ho con la tv. La tv è un mezzo, ancora molto potente, che va studiato e padroneggiato. È come cercare di guidare una Ferrari da neopatentato. Forse non è esattamente la macchina giusta per cominciare, no?

La tua grande passione per il funk è nota, mi vien da pensare che hai voglia di combattere come si faceva negli anni ’60, dove gli afro americani difendevano i loro diritti. Trovo questa cosa molto bella e mi ci riconosco a pieno! Sei decisamente un trascinatore!
Ti ringrazio, hai colto un punto importante. Non perché pensi a me stesso come un trascinatore ma perché credo che, a prescindere dal genere che si sceglie di suonare, chiunque si metta su un palco e imbracci uno strumento abbia una responsabilità verso chi ascolta: trasmettere un messaggio, un’idea o un’emozione. Non son affatto d’accordo con coloro che dicono di suonare per loro stessi, è ipocrisia allo stato puro. Chiunque si esibisca lo fa per un feedback di qualche tipo che gli arriva da chi ascolta. Noi abbiamo scelto di trasmettere qualcosa attraverso il funk e non è affatto detto che il messaggio venga sempre colto o che sia sempre degno di essere colto ma, se non altro, ci proviamo. A volte chi ascolta non ha voglia di pensare; a volte ha solo voglia di scatenarsi a briglia sciolta solo per il gusto di farlo e questo tipo di musica è perfetta per questo. Magari il messaggio arriverà la volta dopo, mica hai solo un’occasione.

 Il futuro dei Freak Show?
Il futuro non è conoscibile, checchè ne dicano i maghi in tv e gli oroscopi. Figurati io, che non so neanche cosa farò tra due ore. Bisogna godersi quello che si ha nel momento in cui lo si ha. Adesso abbiamo una band che funziona e tra noi ci divertiamo un sacco, anche al di fuori dell’ambito musicale. Facciamo quello che sappiamo fare: scriviamo canzoni e le facciamo sentire, tutto qui. Quello che ci riserva il futuro, tutto sommato, non è che ci interessi troppo finchè stiamo bene nel presente.

Lancio una sfida; cosa vogliamo dire ai lettori di SOund36 a proposito di Stand Up?
Sfida facilissima: vorrei che i lettori di SOund36 ascoltassero il brano e lasciassero una loro impressione (un feedback, come ho detto prima), bella o brutta che sia, sui vari canali di comunicazione che oggi abbiamo a disposizione: YouTube, i social, ecc. Non che questo ci sposti minimamente da ciò che vogliamo fare, eh, non è che inseguiamo i voleri del pubblico, non siamo quel tipo di gruppo. È pura voglia di complimenti, ecco, siamo sinceri. Sperando che arrivino più apprezzamenti che bastonate, si intende. Il più bel complimento che abbia ricevuto in musica lo espresse una ragazza che disse che l’avevamo fatta stare bene, credo sia il massimo che si può desiderare.

Grazie Massimo di averci concesso un po’ del tuo tempo e grazie al tuo gruppo che ha la forza e la gioia di seguire il tuo pensiero.
Grazie a te anche per quest’ultima frase che mi permette di chiarire un aspetto a cui tengo molto. In questa intervista ho parlato solo io ma è chiaro che non potrei fare niente senza il fondamentale appoggio del gruppo. Loro ci sono sempre, sono i miei più grandi critici, mi aiutano a focalizzare le cose e a setacciare le canzoni degne da quelle che non lo sono. E poi sul palco sono incredibili, musicisti preparatissimi e allo stesso tempo divertenti e coinvolgenti, se guardate qualche nostro video live capirete cosa intendo.

About the author

Alessandro Ettore Corona

Alessandro Corona nasce a Bassano del Grappa (VI) nel ’57. Dopo aver vissuto in varie zone del Veneto, si trasferisce a Bologna negli anni’70, seguendo tutto il movimento artistico di quel periodo; dai fumetti di A. Pazienza e N. Corona, alla musica rock britannica e americana, a quella elettronica di stampo tedesco, al cinema d’avanguardia tedesco e francese, per approdare poi alla scoperta della fotografia internazionale seguendo corsi di approfondimento e di ricerca.

Scatto per non perdere l’attimo.
Esistono delle cose dentro ognuno di noi, che vanno messe a fuoco.
Esistono cose che ci circondano e che non vanno mai perse, attimi che possono cambiare il nostro futuro; ognuno di noi ha un’anima interiore che ci spinge verso quello che più ci piace o ci interessa.
Io uso la macchina fotografica come un prolungamento del mio braccio, la ritengo un contenitore enorme per catturare tutti quei momenti che mi appartengono.
Passato e futuro si uniscono fondendosi insieme e per caratterizzare l’anima degli scatti creo una “sensazione di fatica” nella ricerca dell’immagine mettendo in condizione l’osservatore, di ragionare e scoprire sé stesso dentro l’immagine.
Trovo interessante scattare senza pensare esattamente a quello che faccio; quando scatto il mio cuore muove un’emozione diversa, sento che la mia mente si unisce con estrema facilità al pulsante di scatto della mia macchina, non esito a cercare quel momento, non tardo un solo secondo per scattare senza riflettere.
Il mio mondo fotografico è principalmente in bianco e nero, il colore non lo vedo quasi più, la trasformazione cromatica è immediata.
Non esito: vedo e scatto!
La riflessione per quello scatto, si trova in mezzo tra il vedere e lo scattare senza esitare sul risultato finale, senza perdere tempo in quel momento.
Diventa immediato per me capire se quello che vedo e che intendo scattare può essere perfetto,
non trovo difficile esprimere quello che voglio, la macchina fotografica sono io.
Ogni scatto, ogni momento, ha qualche cosa di magico, so che posso trasmettere una riflessione quindi scatto senza cercare la perfezione estetica perché nella fotografia la foto perfetta non esiste, esiste solo la propria foto.
Works:
Fotografo e grafico: Mantra Informatico (cover CD), Elicoide (cover LP)
Fotografo ufficiale: Star for one day (Facebook). Artisti Loto (Facebook)
Fotografo ufficiale: Bowie Dreams, Immigrant Songs, Roynoir, Le Sciance, Miss Pineda.
Shooting: Federico Poggipollini, Roynoir, Heide Holton, Chiara Mogavedo, Gianni Venturi, Double Power big band, Progetto ELLE, Star for one day, Calicò Vintage.
Radio: Conduttore su LookUp radio di un contenitore artistico, con la presenza di artisti.
Fotografo ufficiale: John Wesley Hardyn (Bo), Reelin’and Rocking’ (Bo), Fantateatro (Bo), Nero Factory (Bo), Valsamoggia Jazz club (Bazzano), Friday Night blues (Bo), Voice club (Bo), Stones (Vignola), il Torrione (Fe), L’officina del gusto (Bo), Anzola jazz, Castelfranco Emilia blues, Bubano blues, Mercatino verde del mondo (Bo), L’Altro Spazio (Bo), Ramona D’Agui, Teatro del Pratello (Bo), P.I.P.P.U Domenico Lannutti, Insegui L’Arte (Badolato CZ), Artedate (Mi), Paratissima Expo (To), Teatro Nuovo e club Giovane Italia(Pr), Teatro Comunale e Dehon (Bo), Teatro delle Passioni (Mo).

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