Vicenza Jazz – New Conversations – XXVIIIedizione @ teatro Comunale Vicenza
“MANOS” con Omar Sosa (pianoforte) e Marialy Pacheco (pianoforte)
“FOOD” con Paolo Fresu (tromba) e Omar Sosa (pianoforte)
VICENZA JAZZ New Conversations – XXVIII edizione
Articolo di Francesco Bettin
foto di Roberto De Biasio
Uno dei metodi per tornare a casa ricchi, ricchissimi pur magari, però, senza un centesimo è poter assistere a un concerto jazz come quello di venerdì 17 maggio al teatro Comunale di Vicenza, che ha visto in due set distinti esibirsi Marialy Pacheco e Omar Sosa (entrambi pianoforte) in “Manos”, e Paolo Fresu (tromba, naturalmente, e flicorno) e lo stesso Sosa in “Food”.
Uno di quei concerti che lasciano il segno e riappacificano con la musica, qualora se ne sentisse il bisogno. Ed è stato certamente uno dei più attesi appuntamenti di questa ventottesima edizione 2024 di Vicenza Jazz, intitolata “Un sogno lungo ottantotto tasti” sotto la direzione artistica di Riccardo Brazzale.
Dinanzi a una Sala Grande praticamente piena i tre artisti hanno dimostrato il loro grandissimo valore, in un programma che, quella sera, ha visto anche delle jam session in altri angoli della città, e, a mezzanotte, al Cimitero Maggiore della città, Pierpaolo Vacca in duetto ancora con il trombettista sardo.
Nel primo degli appuntamenti, “Manos”, appunto, sopra un palco disegnato da bellissimi effetti, il messaggio di fratellanza di Sosa e Pacheco si è subito palesato tra estrema eleganza e bellezza. Un clima decisamente d’ispirazione cubana, e non poteva essere altrimenti, con sorrisi complici tra i due, qualche variopinto scherzo musicale, pirotecnici saltelli del pianista, in un vis a vis tra i due pianoforti e chi li suonava. “Manos” non ha fatto vedere nessuno stacco, tantomeno incertezze o tempi morti, piuttosto una soluzione di continuità e virtuosismo dove il pubblico si è trovato catapultato nell’assoluta grazia armonica. Sosa, da musicista eclettico ha trascinato Pacheco in un concerto di scambio solare, con il pianista che alle caviglie ha anche usato dei sonagli da percussione a ritmare conseguentemente e maggiormente le composizioni suonate. Messaggio di fratellanza, si diceva, ma anche pure sonorità tra il cubano, l’afro e la world music, di cui Sosa è attentissimo esponente. I loro diversi stili, lei più classicheggiante, lui più sperimentatore, spumeggiante e multiforme, han fatto si’ che si andasse in un’unica direzione-fusione, quella universale che non ha certo tradito, tutt’altro, la musica cubana, i richiami alla stessa, alle carretere, ai profumi e ai colori dell’isola dell’America Centrale.
I grandi momenti del doppio virtuosismo hanno piacevolmente conquistato il pubblico, in un dialogo musicale a due variopinto, estroso. Secondo set della serata, “Food” è stato un entusiasmante, altissimo duetto tra la tromba (e il flicorno) di Paolo Fresu e il pianoforte ancora di Omar Sosa, ispirato al tema del cibo, a una relazione insita tra le sette note e il gusto. Che porta comunque alle relazioni con l’altro, il nuovo, alla scoperta. Sosa si è diviso tra più tastiere, Fresu, piegato su se stesso, a piedi scalzi, era naturalmente concentratissimo, mentre sul palco stazionavano, sparse e illuminate di arancio, blu, bianco, alcune pentole, mestoli, vettovaglie. E proprio il trombettista ha tenuto a sottolineare l’importanza del cibo, della sua tragica, assurda mancanza in alcune zone del mondo, parlando anche di una politica che dovrebbe diventare equa per tutti contro lo spreco, e del ruolo che loro, come artisti, hanno come dovere di contribuire per un invito, una riflessione in più da farsi. L’incanto è stato totale di fronte a questa musica, perché dinanzi a essa, è inevitabile e giusto, sparisce tutto. Una delle vette più alte toccate è stata con l’esecuzione di “What Lies Ahead”, un brano di Peter Gabriel, lavorato su un lavoro del figlio Isaac. Nella tromba di Fresu, incline e umile servitore del proprio strumento, c è’ sempre un rigore stretto, un’osservanza libera del grande jazz e i momenti notevolissimi sono stati davvero tanti. Come quello in bilico al misticismo, che ha visto il trombettista in posizione solenne e intento nelle sonorità di “Estancia” e Sosa, con accompagnamento di base che andava, a mani giunte a proseguire, mentre una ricetta in lingua sarda veniva declamata nel brano. Riti laici, che si sono protratti nell’aria in un religioso silenzio.
Anche” Food”, come “Manos” è un album, per chi volesse deliziarsi, terzo di una trilogia per entrambi nello scandagliare sentimenti umani, sempre in relazione con la musica naturalmente. Paolo Fresu, più che una garanzia è un nome che tutti ci invidiano, che ha scambiato tocchi vertiginosi con il suo strumento delicato e forte con il pianoforte di Omar Sosa, come un grande artista sa fare. Del resto è un musicista pieno di curiosità e aperto a innumerevoli esperienze (proprio qualche sera fa l’ho riconosciuto nel profondo e chiaro suono di una colonna sonora di un film italiano, per la verità per nulla interessante, ma che grazie a quel suo tocco, anche lì, portava in superficie il progetto). Pentagrammi e spartiti dunque visti come dei piatti tipici, di ogni terra diversa dalla nostra, verrebbe quasi da dire, con sonorità che sono andate dritte dritte all’anima. Con due altrettanto anime distinte, pianoforte e tromba, eppure uguali, narranti e scopritrici. Quando la musica è questa, quando il jazz è questo, ci si può solo levare il cappello, e contemplare, godere. Il resto, ripeto, sparisce. Enorme il successo, tantissime le chiamate.