Interviste

Figlio delle stelle per sempre

Scritto da Lucia Castagna

Alan Sorrenti, entrato nel firmamento dei classici che non tramontano mai, con quella sua canzone che ha segnato un’epoca e un certo modo di vivere di quegli anni in cui tutto sembrava possibile, oggi è scoperto anche dai giovanissimi che su Tik Tok ne hanno fatto un tormentone. Pigro, meditativo, defilato dai presenzialismi dello spettacolo, compone nuova musica, prepara il tour per l’estate e scrive un libro che è quasi un’autobiografia

Ci sono stelle che influenzano le maree, il clima, i caratteri, il destino. Stelle che non perdono mai la loro lucentezza, la meraviglia del loro bagliore, che attraversano il tempo mantenendo intatto il loro fascino e la loro bellezza. Stelle che ritornano, perché non se ne sono mai andate, e che ritrovi all’improvviso in arrivo da altri universi. E ci sono i Figli delle stelle, in quella canzone che ha attraversato cinque decenni rimanendo nel cuore di tutti, che è diventata un tormentone su TikTok, il social network dei giovanissimi che cantano e ballano sulle note di questa hit che ha superato 20 milioni di streams su Spotity.
Una canzone che ormai è un classico del nostro pop, e però ha un sound internazionale, è nel repertorio di tutti, e appartiene a tutti, nello stile e nel tempo. Come Alan Sorrenti, l’autore, l’interprete e l’icona stessa di questa galassia in cui le stelle come lui non tramontano mai. Uno che non smania di presenzialismo televisivo, visibilità sui social, voglia di apparire. Anzi, con una certa pigrizia partenopea e il voluto distacco da certo mondo dello spettacolo troppo affollato, vive i suoi spazi privati con la serenità di chi ha imparato a privilegiare soprattutto i valori interiori.
Assente per un certo tempo dalle cronache dello spettacolo, perché magari era da un’altra parte nel mondo, in giro per festival o tour, lo abbiamo ritrovato nella colonna sonora di Diabolik chi sei?, il terzo film della serie, che i fratelli Manetti hanno voluto affidare alla sua voce, “la più adatta alle atmosfere anni ‘70”.

Lui confida: “Non sono mai stato un lettore di fumetti, al massimo leggevo Topolino, ma Diabolik è stato un’eccezione. Il suo personaggio ingegnoso, misterioso ed imprevedibile aveva fatto presa all’istante sulla mia immaginazione di adolescente. E quindi non mi è stato difficile calarmi in quel mondo per scrivere “Ti chiami Diabolik” ed interpretarlo sulla musica trascinante ed avvincente dei Calibro 35. Una nuova esperienza che in fondo mi mancava. Già l’estate scorsa, con il tour “Oltre la zona sicura” e vari festival, ho capito di avere un pubblico davvero trasversale, anche di ventenni, di essere uno che colma un gap generazionale, e fonte di ispirazione anche per certi artisti della nuova scena musicale italiana”.

Ma la tua carriera era cominciata prima dei “Figli delle stelle”.
Avevo vent’anni e al Vomero, dove vivevo, c’era un negozio di dischi di importazione dall’America e da Londra, e lì scoprivamo un mondo nuovo. Grazie al mio amico Umberto Telesco, compagno di ascolti e fotografo delle mie prime 4 copertine, scoprii Tim Buckley, i Van der Graaf Generator, e per me fu un’apertura mentale ed emozionale. Lo studio fotografico di Umberto a via Tasso era un crocevia: chi andava in India, chi ritornava da qualche viaggio, chi aveva letto un bel libro, e io assorbivo tutto, come un mondo nuovo. Poi sono stato molto tempo nel Galles, dai miei parenti da parte di mamma, e a Londra, e al ritorno scrivevo musica chitarra e voce, e la registravo su cassette. Qualcuno le fece arrivare a Radio Rai, che trasmetteva brani di emergenti, e ci furono tantissime reazioni positive. E così nel 1972 nacque Aria, che recentemente la rivista inglese Mojo ha celebrato come un tesoro nascosto, un esempio sublime del miglior rock progressive di tutti i tempi. Ma al festival di avanguardia di nuove tendenze di quell’anno mi fischiarono per il mio modo di cantare, un po’alla  Buckley, che da noi non lo conosceva nessuno.

E poi?
Su consiglio di mio padre, che mi ha regalato il gene del canto, feci una versione psichedelica di un classico napoletano, Dicitancello vuje, forse uno dei pezzi più importanti per me, quello che mi portò in classifica. E subito dopo tornai a Londra per registrare Come un vecchio incensiere, un album forse ancora più complesso di Aria, con la facciata A di vera musica contemporanea. Ero stato fortemente ispirato dal film La montagna sacra, di Alejandro Jodorowsky.

Grazie a tua madre, avevi già un’apertura mentale internazionale.
Vivevo due realtà, anzi tre perché mia madre lavorava come segretaria di un generale alla base Nato di Bagnoli: con lei incontrai la regina Elisabetta quando venne a visitare la portaerei nel Golfo di Napoli. Oltre al Galles, dove andavo spesso, e a Napoli dove vivevo, lei mi portava in America, e a un certo punto mi sono trovato straniero nella mia città: anche se sentivo molto la napoletanità, l’aspetto tradizionale non mi interessava, anzi mi soffocava. Più tardi ho capito che mi sento straniero ovunque. E’ così anche ora.

Dici che la tua prima musica è stata molto cosmica.
Sì, qualcosa che arrivava da un altrove e che doveva ritrovare la sua strada, incanalarsi in qualche forma che stavo cercando, forse anche nei miei viaggi. Decisivo fu quello in Africa, in cui scoprii il ritmo, quasi una cosa primordiale, e che fu la spinta per gli Usa: a San Francisco feci Sienteme, it’s time to land, un disco tra soul e funky. Il fonico ci diede il contatto per un produttore importante, e con lui incidemmo “Figli delle stelle”.

Che verso la fine degli anni ‘70 fu uno dei singoli più venduti.
Un successo incredibile, travolgente, uno sbandamento, come vivere su un altro pianeta, dove tutto sembrava possibile, libero di poter esplorare qualsiasi strada. Ricordo che arrivai al Festivalbar in RollsRoyce, che era di un amico, ma mi permetteva di fare scena. Peccato che nessuno si è mai soffermato sul testo di quella canzone, che aveva un filo di malinconia, di tristezza. Quell’incontrarsi e perdersi subito dopo rimandava alla fugacità di quegli anni: si consumava tutto subito. Era un testo spirituale, ma non potevo immaginare che nei decenni successivi gli scienziati avrebbero scoperto che in fondo siamo fatti di materia stellare. O di sogni. Chi poteva pensare che sarebbe diventato uno stile di vita, tipo La dolce vita di Fellini? Cose che non finiranno mai.

 Quel successo improvviso ti faceva sentire a disagio?
Non era tanto il successo, quanto tutto quello che comportava: il fatto di non essere totalmente libero, anche di sperimentare, ad esempio. Io ho sempre avuto un approccio anarchico. La politica non c’entra. Parlo di approccio. Volevo essere libero di poter esplorare qualsiasi strada. Ero allergico alle definizioni. Invece in quegli anni finii per sentirmi imprigionato.

 La notorietà irruppe nella tua vita privata con gossip e liti, e perfino la prigione.
Per molto tempo non ho voluto parlarne, perché mi feriva troppo. 33 giorni a Rebibbia, per la follia della mia ex che mi fece passare per un pericoloso drogato. Ci sono relazioni che scoppiano, con il desiderio di fare male, e quello per lei era un modo perfetto: mi trovai al centro di un ciclone che mi sconvolse. Il solito giudice che voleva mettersi in mostra mi accusò di associazione a delinquere e spaccio di droga, e finii in cella. A Rebibbia c’erano i camorristi della Nuova Famiglia, nell’ora d’aria incontravo spesso Alì Agca, che aveva sparato al Papa. E io, in mezzo a loro, mi chiedevo perché ero lì… Alla fine, riuscii a chiarire tutto, a dimostrare la mia innocenza, ma quell’esperienza mi aveva devastato. Poi, lentamente, sono riuscito a ritrovare un equilibrio, a liberarmi dalle rabbie e i risentimenti, ad avere la forza di parlarne, quasi come andare in analisi, e mi sono accostato al buddismo, che mi riportava a una dimensione umana, facendomi capire che quello che era successo doveva succedere, dando un senso a tutto ciò che di buono e anche di meno buono avevo fatto fino ad allora. Ancora oggi è il mio rifugio, la mia consolazione, una forza incredibile che ha trasformato la mia vita, e praticandolo ho capito che la vita non è solo questa. Mi ha fatto vedere un frammento di eternità, e che forse siamo davvero figli delle stelle.

Cosa c’è nel tuo futuro?
Sto lavorando ai nuovi pezzi per il prossimo album, preparo un tour teatrale, e sto scrivendo un libro che è quasi un’autobiografia, il racconto di uno come me, di una vita che si muove per immagini, in un percorso vissuto nella memoria, sollecitato da un produttore internazionale che vorrebbe farne un film.

E se ne va, stella luminosa fra le stelle, in un’aura che ti avvolge il cuore.

 

 

 

.

 

 

 

 

 

 

About the author

Lucia Castagna

Lucia Castagna, innamorata da sempre della parola e delle cose da raccontare, giornalista professionista, è arrivata alle testate
di maggiore prestigio come inviata, capo redattore e direttore. Autore televisivo e docente di comunicazione, sta scrivendo il
suo primo romanzo.

error: Sorry!! This Content is Protected !!

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori Informazioni

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Con questo sito acconsenti all’uso dei cookie, necessari per una migliore navigazione. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai su https://www.sound36.com/cookie-policy/

Chiudi