“Un bel giorno ti accorgi che esisti, che sei parte del mondo anche tu”, cantava Ivana Spagna nel 1994.
Proprio seguendo l’atto rivelatore di una giostra vitalistica (di cui ciascuno è attore e spettatore al contempo), che sembrano posizionarsi i quindici tasselli a cui Elisa Rovesta offre una disposizione ironicamente autentica in “Fatti di umani- Racconti in cui non succede niente”.
La formula dei racconti brevi che si presentano nell’ordine cronologico in cui sono nati, incarna il modo più istantaneo, divertente e divertito con il quale provo a restituire delle storie esattamente per come vorrei leggerle, facendole giungere subito al punto seppur densi di dettagli, tanto che, spesso qualcuno crede vi siano precisi riferimenti biografici e autobiografici. In realtà, ciascun personaggio ed ogni scena sono un ritratto di ciò che ho captato osservando il reale, quindi in parte anche una fotografia mia e di tanti altri (tra confessioni e verità mai ammesse), senza scivolare in attribuzioni dirette o derive morali– precisa la scrittrice mantovana, abituata a muoversi tra confini giuridici e comunicativi, esplorando le risorse umane.
Nel nuovo vestito, confezionato da NFC edizioni (dopo una prima esperienza con il Rio nel 2021), la pubblicazione frizzante e sopra le righe, immaginata come il secondo capitolo di un percorso iniziato con “Umanistili e una ballerina sulla luna”, assume i contorni di un affresco verista, declinato in sfumatura caricaturale (la postfazione a firma dello storico dell’arte Gabriello Milantoni né da conto con dovizia di particolari), si fa largo sul palco d’ inchiostro, una gamma di umanoidi, frutto di una certosina tipizzazione, in grado di spaziare tanto nell’ orizzonte dell’ osservazione concreta, quanto nell’iperuranica astrazione surrealista, di chi sdogana i difetti con un sorriso, sdrammatizza ma non cela le fragilità endemiche e sistemiche di un universo sregolato, i cui abitanti, se guardati da vicino, son tutti delle affascinanti creature splendidamente contraddittorie, delle quali scoprirsi riflesso oppure l’ opposto, senza salire (l’autrice sfodera l’arguta imparzialità di un arbitro incorruttibile e mai invasore di campo) sullo scranno del giudice inquisitore.
Pagina dopo pagina, infatti sembrerà di vedere fluttuare nel girone di comuni eletti, l’identikit di profili conosciuti o anche solo sfiorati per pochi secondi. Si è catturati dal volto del nutrizionista incazzato che incute soggezione mentre disquisisce con l’architetto che conosce il Palladio (il cui gusto estremo è indiscutibile), su quanto sia fastidiosamente imperante la sindrome dello spugnato giallo, fin quando la stessa non diventerà un must del quale neppure un influencer degno di questo nome potrà fare a meno , quasi fosse una soft skill manageriale imprescindibile, pari all’ inclinazione nell’essere attratti da un amore tossichino, oscillando in imperfetto equilibrio tra chi incarna l’ essere un single che sta bene così e chi si accontenta della bugia amorosa del “è praticamente finita”, simile a quella che ci invita a prediligere la bellezza interiore quando ci sentiamo dei brutti anatroccoli.
Li ritroveremo lì, i subumani “disegnati” da Elisa Rovesta, più umani che mai, a giocare con le carte della loro esistenza come se si trovassero in un gigantesco acquario di darwiniana memoria (scientifica e televisiva) della riviera romagnola, nel quale (facendo eco ad una commedia umana polifonica dal sapore vanziniano) la loro creatrice li ha fatti accomodare fino alla prossima avventura.
La nuova esperienza letteraria attesa entro la fine dell’anno, tra accenti stilistici consolidati e sorprese narratologiche, confermerà forse, tra riso e consapevolezza, che la domanda simbolo di un noto talk contemporaneo “Lei che belva si sente?”, sia rivolta proprio a noi. Noi, maschere, dissimulatori, artefici di narrazioni, esseri bifronte in questo grande e finitamente infinito cerchio della vita. IL racconto tra i racconti, nelle cui increspature accade quel niente che, come aveva intuito Eugenio Montale, è già tutto.