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50 pagine al giorno- Il libraio di Selinunte di Roberto Vecchioni

Scritto da Giulia Carlucci

“Tutte le parole scritte dagli uomini sono forsennato amore non corrisposto; sono un diario frettoloso e incerto che dobbiamo riempire di corsa, perché tempo ce n’è poco. Un immenso diario che teniamo per Dio, per non recarci a mani vuote all’appuntamento”

Non è una favola. La storia di Nicola e del libraio di Selinunte non è una favola.

“La favola è fuori di qui, la favola è nel nostro strazio quotidiano, nella nostra incapacità di far corrispondere quel che diciamo a quel che sentiamo”.

Selinunte è un piccolo centro. Lì apre la sua bottega un libraio che preferisce raccontare i libri piuttosto che venderli. In una tradizione orale che ha radici lontane, vorrebbe riconsegnare le parole di moltissimi scrittori alla memoria collettiva. Una collettività però che non gli riconosce merito. Solo Nicolino partecipa ai suoi incontri di nascosto persino da lui, e quelle parole si insinuano nella sua mente. Sedimentano e fanno crescere in lui l’amore per un patrimonio artistico che non ha eguali.
Saffo, Pessoa, Tolstoj, Rimbaud. Quelle parole sono pronte ad aiutarlo con la loro presenza resistente quando sul paese si abbatte- annunciata dalla casa del libraio che brucia- una profezia: un pifferaio che porta via tutti i libri e con loro ogni parola.
I cittadini di Selinunte perdono quindi ogni parola. Tutti tranne Nicolino.
Non ricordano più il nome di nessuna cosa, o meglio non riescono a esprimerlo. Questo silenzio e l’incapacità di comunicare mostreranno loro per contrappasso l’importanza della parola.

“Il libraio leggeva le parole senza imporle all’ascolto, perché le parole non nascono, non nascevano in quell’autore, per favorire, acchiappare, assecondare, manovrare a piacimento le emozioni del pubblico, stipandole nella gabbia di un unico sentire. Il libraio restituiva le parole a se stesse. La lettura che usciva dalla sua bocca era un’offerta di toni per l’anima: salire, scendere, fermarsi. Salire, restare, risalire. Non una concessione al sentimentalismo, non una lacrima, un grido in più, non una risata, un ammiccamento: niente effluvi di furore, smargiassate, tenerezze.Leggeva il tempo che dura la parola nel cuore, senza picchi o sbalzi… Il libraio lesse ancora: leggeva e io sentivo senza capire. Come se quei pezzetti di suono si calamitassero tra loro e formassero una piccola figura compatta: un unico assemblarsi in una sola vivida emozione; e io quella provavo, quella avevo dentro, non altre”.

Semplice e unico questo piccolo libro mostra fin da subito il suo intento e la profonda cultura del suo autore. La conoscenza è la pietra su cui costruire lo sviluppo dell’intelletto umano, senza di questa manca ogni consapevolezza. Mancano persino le parole legate ai bisogni primari e così l’uomo non è nulla. Non c’è mente, non c’è cuore. Non c’è uomo.
Non si parla solo di conoscenza letteraria, il concetto è ben più ampio e si estende anche alla conoscenza dell’altro, del diverso.
In una società che mira a far battere i cuori all’unisono, che soffoca le unicità e le relega ai margini. Diffidente nei confronti dell’altro tanto da accusarla e condannarla, proprio come avviene con il libraio, senza possibilità di replica.
Un mondo che corre verso non si sa cosa, o forse solo spaventa persino pensarlo. Un livellamento costante e continuo. L’impoverimento intellettuale e sociale.

“L’uomo ha livellato tutto, pur di far scorrere il suo sangue a quella precisa velocità, far battere il cuore a quel ritmo sempre uguale a se stesso e cosí vivere il piú a lungo possibile, non importa come, non importa a costo di cosa, pur di vivere disegnando una linea dritta, tra immagini a specchi consueti. Eccoci lì, macchine in un grande garage ordinato e pulito, dove ogni manovra d’entrata, uscita, sosta, parcheggio, precedenza, è stata così precisamente organizzata che non dobbiamo più chiederci quale sia il nostro posto, il nostro percorso, il nostro box.Ma forse non siamo in un box. Forse questo mondo non è nato per essere un garage. Forse questo posto è stato pensato come un parco giochi o una stazione ferroviaria di treni a orari imprevedibili”.

A questo Roberto Vecchioni contrappone l’importanza della parola. Piccolo strumento, tutt’altro che insignificante. Ogni parola di questo libro è una scelta, significativa e musicale come se Vecchioni stesse scrivendo una delle sue canzoni cantautoriali, criptica forse. Ermetica come poche, ma proprio per questo estremamente affascinante.
Nella prefazione il nostro autore è chiaro: questa piccolo romanzo o racconto ha come tema centrale l’importanza della parola. Vera protagonista. Luce, vita, pensiero che si concretizza, arte, tutto ciò che resta nel tempo. Tanto flessibile quanto granitica, muta e attraversa il tempo per conservare in sé il passato dell’uomo e il suo presente, consegnandosi infine al suo futuro.
Non troppo sottile è l’accusa dell’autore alla società culturale- se così definibile- dei nostri tempi. Abusata, piegata a interessi che poco hanno a che fare con la bellezza di cui invece è espressione, snaturata: così gli appare la parola oggi.

”Le parole sono cose: noi ne abbiamo deturpato il senso nel tempo o illanguidito la forza, le abbiamo lentamente ridotte ad altro da sé”.

L’autore rivendica per la parola e di conseguenza per l’uomo stesso, il rispetto perduto. Parlare ci fa sentire vivi e unici, esorcizza la morte perché tiene lontana la paura. Così quando l’uomo si racconta ed emoziona il concetto di fine è fuori da ogni pensiero.
E così, come è stato per Andrea Sperelli nel romanzo dannunziano che lo vede protagonista, arriviamo a capire che “la parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze”.

 

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Giulia Carlucci

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