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(Diventammo) Orfani

Scritto da Stefania Pucci

Te ne sei andata il 17 Giugno 2013.
Pioveva quel giorno. Un’estate “instabile” l’aveva definita il meteo. Pioggia e sole, senza soluzione di continuità. Giorni di caldo bestiale e senza sconti e giorni di pioggia, continua, incessante, monotona, a fare da contraltare perpetuo e monocorde ai tuoi pensieri. Pensieri che andavano,
incessantemente, nella stessa direzione. Agli ultimi tre anni, al sangue sulle mattonelle ogni mattina, al dolore incessante, definitivo e brutale. All’ultima chemio, al medico che aveva scosso la testa e alzato le mani. E mi aveva chiesto di portarti via da lì “Non possiamo fare più niente” aveva detto “E’ nelle mani di Dio”. Quale Dio? Io non credo in Dio, non c’è nessun Dio lassù, Gagarin non mentiva. Nessuna divinità, nemmeno la più crudele e indifferente, permetterebbe questo dolore, questa sofferenza, questa inutile corsa verso l’oblio.
Siamo tornate a casa. Ho finto che andasse tutto bene, che il nulla verso il quale ci stavamo avviando fosse solo un inciampo momentaneo, un turno in prigione a Monopoli, che non fosse inevitabile, che non fosse orribilmente definitivo.
Ho chiamato i pochi amici che mi erano rimasti (tre anni di cancro consumano le tue difese e la tua empatia in modi e maniere impossibili anche solo da immaginare. Il mondo se ne accorge e tende a
sopravvivere espellendoti. È umano. Crudele. Ma umano). Ho detto loro, misurando le parole per non scoppiare in lacrime, che non c’era più speranza da cui attingere, che era rimasta dentro un corridoio di ospedale, fra le pareti verdi e l’odore di disinfettante e candeggina. Che potevamo solo misurare i nostri respiri, contarli, in attesa dell’ultimo.
Mi hai chiesto una sigaretta “Non potresti” ho detto. “Non sarà lei a uccidermi” hai risposto, con quel sorriso ridotto a ghigno dal dolore e dalla paura. In quella risposta, in quel sorriso, ti ho rivista.
Ho rivisto la tua ironia, il tuo sarcasmo, ho rivisto l’impossibile arroganza che mi spingeva sempre a correre, a fare di più, a essere di più. Voti migliori, lavori migliori, uomini migliori. Qualsiasi cosa
per renderti felice, per renderti orgogliosa, per essere degna di quell’immagine inarrivabile che avevi di me.
Hai fumato. Senza alcuna soddisfazione, ma con la consapevolezza che i tuoi gesti, calcolati millimetricamente, stavano chiudendo l’ultima porta. Non eri più legata alla vita, non eri più aggrappata a quella che eri, ti eri spogliata di te e dei tuoi orpelli, dei tuoi sentimenti. Eri a un passo
da me. Così vicina, così inesorabilmente lontana.
“Ti voglio bene” Te l’ho detto in quel momento? Te l’ho detto o l’ho solo pensato? Sono uscite da me quelle parole? O sono rimaste nel limbo del non detto, comunicate per via telepatica e muta? È arrivato il mio abbraccio alla tua anima? Eri consapevole di quanto forte ti stessi stringendo?
Riuscivi a sentire il mio respiro, le mie lacrime, il puzzo del mio dolore?
Quando te ne sei andata non ero lì.
Stavo lavorando quando qualcuno ha chiamato e ha detto “Corri”. Così ho fatto. Ho corso. Ho bruciato semafori, ignorato i limiti di velocità, sperando, piangendo e pregando. Pregando di arrivare in tempo, pregando un Dio che non conosco di avere ancora tempo, un’ultima ora, un ultimo minuto, un ultimo istante. Perché dovevo dirti migliaia di cose, perché non dovevo esserci, dovevo accompagnarti. Perché non volevo lasciarti sola, non volevo lasciarti andare. Perché avrei voluto intercettare la tua anima, aggrapparmi ad essa e ancorarla alla vita. Fermare il tempo, azzerare il passato, ripartire da zero. Ricrearmi, ricrearci. Ricrearti.
Non ci sono riuscita. Eri già cadavere quando ho spalancato la porta, eri già altrove quando ho urlato. Parole incomprensibili, vocali allungate e stracciate. Porto dentro quell’urlo da allora. Dal 17 giugno 2013 quando tu, mia madre, mi hai reso orfana. Pioveva quel giorno. Lo ricordo ancora.

Per Annamaria e il 17 Giugno 2013
Per Andrea e il 20 Maggio 2014
Per Marco e il 9 Maggio 2019
Per Marta e il 18 Gennaio 2021

Per chi è stato reso orfano dalla morte. Per chi l’ha fatto rimanendo in vita.
Per Massimiliano Larocca e per una canzone definitiva, insolita e dolorosamente crudele, per quella casa e quelle luci spente che ci guardano ogni notte dall’angolo più buio dei nostri sogni.
Per Enrico Pantani e l’immensa arte di racchiudere in un’immagine quello che a me è costato quattromila parole.
Per la sottile arte del ricordo, perché “non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”

In questo numero di Quatsch: 
– Contro il Capitalismo noi gridiamo con una IG Story di Michele Tarzia
– Il mostro che c’è in te tienilo a bada, il racconto ironico di Reddie 
– Stereotipo versus Libertà, Collage di Sofonisba
– Onora il padre e la madre, L’Eremita Osservatore approfondisce alcuni temi legati a cambiamenti sociali negativi
– Partitura e racconto per cantare in sogno e rimanere a galla, di Massimiliano Bellavista
– Amy Winehouse: morire per sentirsi viva, di Sylvie Freddi

Illustrazione di copertina di Enrico Pantani
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Video di Massimiliano Larocca
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About the author

Stefania Pucci

Ho un corpo. Una faccia, due gambe, due braccia, due seni. Ho della pelle, tanta, troppa pelle. Pelle che brucia sotto il dolore, pelle che si squarcia a ogni ferita. Ho delle ferite. Le mie scelte, le scelte di altri mi feriscono. Mi lascio graffiare e ferire. Perchè questo mi rende viva. Imparo dal sangue a scorrere, riverso nel sangue le mie paure. Sono una donna. Sono il mondo. Sono nulla. Sono tutto.

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