“Scrivere è spogliarsi di fronte a qualcuno, lasciarsi guardare così, nudi e in piedi, pieni di difetti.”
L’alba di domenica. Giulia aspetta che Mia torni da un sabato bravo. Madre e figlia separate da anni e segreti, ognuna con la sua identità.
Entrambe chiuse nel proprio mondo.
Giulia decide di leggere il diario di Mia. Sembra essere l’unico modo per capire.
Lo schema utilizzato finora, quel guscio di solitudine si rompe. Giulia torna ai ricordi della propria giovinezza. Bisogna sempre tornare indietro per andare avanti. Torna così ai ricordi della sua famiglia. A una madre troppo interessata alla forma, a una sorella fintamente perbenista. Torna ai primi passi nella vita adulta. Ai km percorsi nelle corsie dell’ospedale, all’incontro con l’uomo che sarebbe diventato suo marito. Ripercorre la lunga attesa di quella maternità tanto voluta.
Più torna al proprio passato, più affiorano domande sul presente.
Una storia di solitudini. Di anime talmente prese dalla propria esistenza da non riuscire a guardarsi l’una con l’altra e raccontarsi. Nella più classica incomunicabilità che caratterizza l’era moderna.
“Lei ha la risposta pronta, io la domanda. Lei ha i piedi di piombo, io di aria. Lei sta in equilibrio, io casco di continuo. Io sono lei capovolta, lei a testa in giù”.
Così Giulia, che sente profondamente la propria solitudine, la rivede nei comportamenti della figlia. E nelle sue parole.
Riconosce la paura d’amare, innata e forse genetica, quel bisogno di mettersi in salvo.
Forse è proprio la sua freddezza ad aver trasmesso questo alla figlia. La lettura del diario diviene anche uno stimolo alla scrittura per Giulia. E se per amica scrivere è una necessità, per lei lo è sempre stato di più fare. Per non pensare.
“La domenica per te è un avanzo di settimana, per me è una zingara che fruga tra scatoloni e panni usati, che cerca roba ancora buona in mezzo a quello che è stato buttato via…Ogni persona fa finta: fa finta di fare la rivoluzione, fa finta di innamorarsi, fa finta di essere immortale. Io mi sono stancata di fare finta. Non ci sto più.”
Così apparentemente distanti, ma tanto più simili di quanto si possa immaginare.
Lo so che si dice “l’ho amato con tutto il cuore”, ma io l’ho amato anche con i reni e la milza e lo stomaco, l’ho amato come solo una folle ama.
Proprio quell’amore la spinge. A superare il limite. A superare quell’essere di legno, che sembra una malattia per entrambe.
“Il legno sembra fermo, ma è sottoposto a pressioni interne che lentamente lo spaccano. La ceramica si rompe, fa subito mostra dei suoi cocci rotti. Il legno no, finché può nasconde, si lascia torturare ma non confessa. Io sono di legno”.
Nel rincorrersi delle parole entrambe scoprono le origine di ogni frattura.
Mia comprenderà allora che la freddezza della madre è solo il suo modo di proteggersi, e quel distacco che la feriva, così disumano si rivelerà essenzialmente come la più lucida razionalità. Il legno si ammorbidisce.
L’incontro così diviene possibile, ma il prezzo è una difficile verità.
Madre e figlia si conoscono e riconoscono. Attraverso le parole non dette, scritte, lette.
Due anime di legno, immobili e imperscrutabili, che confluiscono l’una nella vita dell’altra ritrovando quel legame unico che esiste solo tra madre e figlia.
“Ma vedi, nella storia di ogni persona c’è una diga. Da una parte, l’acqua che cresce e scalcia ed è energia. Oltre lo sbarramento, la terraferma. Tu di me sai la terraferma. E allora ti racconto l’acqua che non hai mai visto.”
Carcasi è tagliente, abile a usare le parole come spade.
“Mia madre mi ha spiegato che capita, ci sono pazienti che sentono il dolore dove non può esserci. Se togli a un uomo la gamba destra, anche a distanza di anni, ci saranno giorni in cui ti dirà che sente la gamba stanca, sì, la destra, gli farà male, proprio la destra. Possiamo smettere di parlarne, possiamo fare in modo che gli altri smettano di parlarne, possiamo annullare una parte di noi e andare avanti, ma il corpo ha una memoria infallibile, si ricorda la sensazione di gambe e braccia anche quando non ci sono più. Si chiama “sindrome dell’arto fantasma”. Mia madre dice che è il dolore di una parte che manca, lo chiama “il dolore dell’assenza”.
Ampio il coinvolgimento emotivo. C’è una sorta di appartenenza alla storia che si sviluppa nel lettore.
Potrebbe accadermi, potrei viverlo, posso pensarlo.
È quotidianità, è la storia di due donne che affrontano la vita con le proprie forze.
Lo stile dell’autrice è evocativo. Frasi brevi, quasi fosse poesia, che costruiscono immagini intense.
La prosa scorrevole e la frammentazione delle immagini rendono il tono del romanzo colloquiale e coinvolgente.
In una moltitudine di personaggi che amano fino alla follia Mia riconoscerà una madre di legno e ritroverà in lei se stessa.
Ma soprattutto capirà che l’unica regola possibile non è scritta, ma dettata dall’amore. Che non controlli, che dilaga che distrugge e ricostruisce.