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50 pagine al giorno- I dieci passi dell’addio di Luigi Nacci

Scritto da Giulia Carlucci

Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.
Alessandro Baricco

Un ambiente quasi spoglio che ben rappresenta lo stato d’animo del protagonista. Un monologo. La voce profonda dell’attore come unica cosa su cui concentrarsi. 

“Scrivo in un soggiorno semivuoto. Mi fanno compagnia una lampadina, un tavolo blu, un computer, un materasso, una candela, una sedia a dondolo. Quando dal tavolo blu cade una penna, schiantandosi sul parquet produce un’eco”.

Un costante flusso di parole in cui si mescolano coscienza e ricordi. Particolare e universale. Entriamo nel ritmo del racconto, nel ritmo dei ricordi. Sentiamo i pensieri, proviamo il dolore della solitudine. Senza la pretesa di capire, ci sentiamo parte.

“Ti sembra che le cose che fanno schifo facciano meno schifo. Una persona amata fa bene a tutto ciò che esiste”.

Luigi Nacci ci racconta cosa accade dopo la fine di qualcosa che in realtà non può finire perché non sapremmo dire neanche come e quando sia iniziata.  Non ha fine perché resta, ogni cosa ne sembra intrisa. Tutto fa male all’inizio. Ogni cosa perde il suo nome e deve essere dimenticata prima di potersene riappropriare.

“La prima cosa che ho imparato è che questa non è più la casa in cui vivevamo insieme. Per cui da qualche tempo, non saprei dire da quanto, ho smesso di chiamarla casa”.

Per riuscire a prendere le distanze necessarie e ritornare a sé. Tutto deve perdere il nome perché questa è la strada e il modo dell’autore di consegnarsi a quell’addio: rinominare ogni cosa. Tutto deve avere un nuovo nome, in una sorta di rinascita a nuova vita.
Dieci passi per dire addio. Dieci movimenti per strappare e ricomporre. Dieci passi per dimenticare. Perché scordare non è ammesso. Perché l’unico addio possibile in amore è quello destinato a non compiersi. Un sentimento che non può finire, ci dice l’autore, ma che semplicemente muta. Così delle braccia tese ad accoglierci diventano una schiena che si allontana.
In realtà il sentimento non finisce, lo si ripone in un cassetto, che non ti è più permesso aprire. Saprai tuttavia sempre che è lì e questo non potrai mai dimenticarlo.
Perché dire addio, ci insegna Nacci, non è dimenticare. Dire addio è essere grati per ciò che è stato. Se poi la gratitudine debba essere rivolta verso l’altro ormai estraneo, o verso noi stessi per esserci permessi di vivere quelle emozioni, poco importa.
Ignoriamo la fine, rendendo l’addio un momento eterno nella memoria, inevitabilmente idealizzando qualcosa, volutamente pronti a cogliere quel ricordo nel momento in cui ne abbiamo bisogno.
Poco importa dei perché, o delle auto giustificazioni impossibili.

“Ci sono storie d’amore che si consumano come candele, altre che muoiono di morte violenta. Chi uccide una storia d’amore non va in carcere. La sua condanna è il senso di colpa”.

I ricordi riemergono e si mescolano nell’attuale racconto del passato. Emergono dettagli, si ripropongono episodi. Tutto fa parte di una sorta di elaborazione del pensiero. Persino le richieste di aiuto, dirette o indirette, sono semplici richieste di potersi fermare. Di restare nella solitudine del ricordo, anche se quel ricordo viene rimaneggiato dal pensiero, adattato allo stato del presente.
Perché nella solitudine, nonostante il filo della comunicazione con l’altro sia interrotto, ci si sente più intimamente connessi.
Nacci sembra quasi cercare di delineare una sorta di manuale di istruzioni per dirsi addio, per questo prova a elencarne i primi dieci passi. Non sempre consecutivi, tanto che a volte ritorna su di essi come in una sorta di montagne russe sentimentali. Perché la guarigione non è mai un progredire lineare. È un processo fatto di elaborazioni e ritorni, cadute e razionalizzazioni. Spinte al cambiamento e consapevoli rielaborazioni del presente e di sé.
Imparare a dire addio non è altro che accettare attivamente e non passivamente la separazione, ripartire da sé. Perché la fuga vive di assenza e abbandono, mentre l’addio al contrario richiede una presenza costante e significativa. Accogliere il dolore, i ricordi che si affacciano costantemente, per poi essere grati a ciò che è stato. A ciò che siamo stati.

“La memoria si deforma nel tempo. […] Eppure il mio cervello produce questo ricordo”

Il pensiero si muove, nei dieci passi dell’addio, parte dall’Io e si dirige verso il sentire universale. In modo quasi aforismatico.

“Nessun essere umano dovrebbe vivere in una casa senza amore. Alle creature delle case senza amore andrebbe garantito un rifugio per la notte. Una casa degli abbracci deve restare fino all’alba”.

O ancora

“La vita va avanti, si dice. Che sciocchezza: la vita va dove le pare. Va di lato, in diagonale, va a zig-zag, si capovolge. Va come vanno gli animali selvatici: sul sentiero, alla ricerca estenuante di cibo, costruendo tane occasionali, scappando dai predatori”.

Così l’universale sovrasta e nasconde il personale. Chissà se proprio questo fosse l’intento.
La narrazione si sviluppa così in dieci passi simbolici, rappresentando le fasi dell’addio e la complessità delle emozioni provate. La scrittura di Nacci è ricca di metafore e immagini evocative, che rendono tangibile il dolore della perdita e la difficoltà di ricominciare.
Ci sono libri e autori che ci parlano, perché raccontano un nostro vissuto, o semplicemente perché ci parlano in modo diretto. Luigi Nacci lo fa, in modo poetico e commovente, come forse solo un poeta può fare.

 
 

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Giulia Carlucci

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