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ROCKSTEADY: THE ROOTS OF REGGAE

Scritto da Annalisa Nicastro

Emozioni, creatività, talento, storie personali e soprattutto una grande passione per una musica creata da grandi artisti, eccoli qui gli ingredienti che rendono il documentario Rocksteady: The Roots Of Reggae una piccola perla tanto nascosta quanto preziosa e che abbiamo avuto la fortuna di vedere. Ringrazio personalmente per questo la Muse Entertainment (Canada) che lo ha prodotto insieme alla HesseGreutert Films (Svizzera) e il regista Stascha Bader che ha voluto rendere omaggio al Rocksteady con l’intento di non far dimenticare cose così belle. Kingston, la capitale Giamaicana, diventa una delle protagoniste del documentario insieme agli artisti che un tempo furono i pionieri di questo genere musicale e che il regista ha riunito per il tempo di un album per raccontarci le loro storie e per suonare insieme in un ultimo bellissimo concerto finale: tra gli altri citiamo Judy Mowatt, Marcia Griffiths e Dawn Penn; Hopeton Lewis, Stranger Cole, Derrick Morgan, Ken Boothe, Leroy Sibbles e U-Roy. La capitale dell’isola caraibica è conosciuta da tutti soprattutto per essere legata ai più grandi nomi della musica reggae, ma pochi sanno invece quanto sia stato importante il genere del rocksteady per l’evoluzione del reggae stesso.
Attraverso le melodie dei più grandi successi del rocksteady, il film ci fa rivivere la sua età d’oro, che va dal 1965 al 1968 e ci fa capire quanto questo genere musicale sia stato un vero e proprio modo di vivere.
Ricordiamo che nel 1962 l’isola ottenne l’indipendenza dal Regno Unito e i pezzi riflettevano l’ottimismo dell’indipendenza appena ottenuta, i musicisti rocksteady iniziarono a far entrare nei testi questo periodo di passaggio e con esso le influenze religiose, sociali, economiche, politiche e anche temi come l’amore, la gioia di vivere (vedi, anzi ascolta Tide is High di Marcia Griffiths) insieme alle trasformazioni di Kingston (come in Shanty Town di Ken Boothe) e con esse anche la violenza rappresentata dai rude boy. Musicalmente il rocksteady univa lo ska al soul e R&B, il basso manteneva sempre il suo ruolo centrale come nello ska per intenderci, ma il ritmo era dato dal “one drop”, che consiste in un colpo secco sulla cassa o sui tom al terzo battito di ogni battuta in modo da dargli un sound unico ed irripetibile.
Il documentario si sposta dal ghetto di Kingston al mare, da Trenchtown (con Rita Marley che ci accoglie come special guest del documentario) alle case coloratissime di alcuni artisti che ci raccontano piccoli aneddoti, ricordi personali, insieme alle immagini in bianco e nero di quel periodo che si alternano con le prove per il concerto degli stessi musicisti, fatte nei leggendari Tuff Gong Studios. La colonna sonora del film è anche disponibile in un cd che prende il nome dallo stesso documentario, e che comprende 15 tra le hit più belle del rocksteady: Take It Easy di Hopeton Lewis, You Don’t Love Me Anymore (No, No, No) di Dawn Penn, Stop That Train di U-Roy e tantissime altre ancora. Sia se guardate il documentario sia se ascoltate il cd, sarà difficile rimanere fermi, ha un buonumore contagioso!

Annalisa Nicastro (28.2.10)

About the author

Annalisa Nicastro

Mi riconosco molto nella definizione di “anarchica disciplinata” che qualcuno mi ha suggerito, un’anarchica disciplinata che crede nel valore delle parole. Credo, sempre e ancora, che un pezzetto di carta possa creare effettivamente un (nuovo) Mondo. Tra le esperienze lavorative che porterò sempre con me ci sono il mio lavoro di corrispondente per l’ANSA di Berlino e le mie collaborazioni con Leggere: Tutti e Ulisse di Alitalia.
Mi piacciono le piccole cose e le persone che fanno queste piccole cose con amore e passione. E in ultimo vorrei dire che mica sono matta, ma solo pazza. Pazza di gioia.

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