L’immobilità dettata dalla pandemia non è riuscita a fermare i Tomahawk, la allstar band formata da Mike Patton (Faith No More/Mr. Bungle/Fantômas), Duane Denison (Jesus Lizard), Trevor Dunn (Melvins/Mr. Bungle) e John Stanier (Helmet/Battles). Il nuovo lavoro, Tonic Immobility, non segna grandi deviazioni rispetto al passato, rispettando comunque le alte aspettative che per quattro grandi musicisti come loro rappresentano una sorta di spada di Damocle.
Il tocco pizzicato della chitarra di Denison in “SHHH!” è la trasposizione a tutti gli effetti del fantasma dei Jesus Lizard e non mi sento di dire un’eresia nell’affermare che spesso e volentieri il sound delle lucertole di Chicago farà capolino nel corso dell’album, prevaricando la parte strumentale. Ovviamente c’è posto anche per la batteria quadrata di Stanier (“Valentine Shine”), meticolosa come pretende il rigoroso schema math rock.
Patton si dimostra il solito camaleonte del microfono, incapace di mantenere un tono uniforme nella stessa canzone (“Predators And Scavengers”, “Tattoo Zero”): un’enciclopedia vivente che abbraccia infiniti stili di canto. Il basso di Dunn sa essere strumento di flemmatica resa (“Doomsday Fatigue”) e, all’occorrenza, trasformarsi in arma non convenzionale (“Business Casual”).
L’effetto eco della voce tenta di arginare la tempesta in arrivo (“Fatback”), che sarà impossibile da contenere in “Dog Eat Dog”, nonostante alcuni tentativi a vuoto (“Eureka”). La fluida “Sidewinder” è un surrogato di chamber rock con una punta di noise che non guasta mai, includendo nel prezzo cori celestiali e ruggiti hardcore.
Liberi da ogni forzatura, con “Recoil” i Tomahawk collocano un mastodontico elefante in un negozio di cristalli di proprietà dei Red Hot Chili Peppers. Non ci saranno sensi di colpa nonostante il danno incalcolabile. A noi comuni mortali non resta che goderci lo spettacolo.
Tomahawk – Tonic Immobility
I Tomahawk con questo album confermano le alte aspettative che circondavano il nuovo lavoro di questi quattro grandi musicisti