A propos de Recensioni

Poker Sound: La riscoperta del Country Rock

Scritto da Marco Restelli

In questa puntata odierna di Poker Sound, che fino ad ora abbiamo dedicato solo a monografie di singoli artisti o di band celebri, amplieremo l’orizzonte per raccontare lo sviluppo di quella sorta di movimento noto come Alternative Country (anche detto semplicemente Americana).
In estrema sintesi, fra la seconda metà degli anni 80 e la prima dei 90, in America si assistette ad un ritorno alle radici del country rock d’oltre oceano che, pur avendo come punto di riferimento America, Eagles, Grateful Dead, The Band, Creedence Clearwater Revival e altre icone storiche degli anni 60 e 70 alcune delle quali avevano avuto il loro momento di gloria a Woodstock. Certamente si voleva riprendere il discorso, ma proponendo altresì un suono più moderno. Fra i tanti gruppi che tentarono l’ascesa ci siamo concentrati sui quattro che in qualche modo ebbero maggiore successo e riuscirono anche a resistere all’usura del tempo: The Jayhawks, Counting Crows, The Wallflowers e Hootie & The Blowfish.

Mantenendo fede al nostro format, la scelta degli album è ricaduta sui più rappresentativi delle rispettive discografie, limitandomi a segnalare per ogni band gli altri eventualmente considerati più validi, a beneficio di coloro che, apprezzando quelli selezionati, volessero ulteriormente approfondire l’ascolto.

The Jayhawks: Hollywood town hall (1992) ****

Delle quattro band scelte, i Jayhawks sono i soli a cominciare il proprio percorso già negli anni 80. Tuttavia, il primo album che li fa realmente conoscere al grande pubblico, nonché da molti considerato il migliore, è Hollywood Town Hall, del 1992. Le due personalità di spicco della band, autori di tutte le canzoni, sono i due vocalist/chitarristi Gary Louris (che personalmente preferisco) e Mark Olson ai quali si aggiungono Marc Pelman, al basso, e Ken Callahan alla batteria. Al suono delle chitarre elettriche ed acustiche, che dominano il suono sovrapponendosi in molti pezzi, si aggiungono di volta in volta suoni tipici della musica folk country come ad esempio l’armonica, suonata dal citato Olson. All’organo e alle tastiere, invece, risulta fra i credits un certo Benmont Tench, preso temporaneamente in prestito dai mitici Heartbreakers di Tom Petty. Fra i pezzi brillano la ballata stradaiola di Waiting for the sun – con piano, riff di chitarra e organo che aprono lo spazio per l’entrata di Gary Louris – la più lenta Two angels (già presente. ma in un’altra versione, nel loro Blue earth del 1989), Clouds e la finale Martin’s song, ma in realtà l’album è tutto da godere dall’inizio alla fine. Al di là del valore dei singoli episodi, infatti, il disco è importante perché evidenzia con armonia, e qualche sagace “sporcizia” qua e là, quel nuovo suono che guarda contestualmente al passato e al presente influenzando molti artisti che in quel periodo decideranno di seguirne la scia (un esempio su tutti i sottovalutati Whiskeytown del grande Ryan Adams). La band cambierà radicalmente line up solo nel 97 perdendo Marc Olson e lasciando a Louris le redini della carrozza, ma la qualità a mio avviso non verrà meno riuscendo dopo due buoni dischi, nel 2003, a centrare con Rainy Day Songs quello che personalmente considero il loro vero capolavoro. L’ultimo disco, recensito da Sound36 è l’ottimo Back roads and abandoned motels del 2018.

Album must have: Tomorrow the green grass (1995) **** / Rainy day songs (2003) *****

Counting Crows: August and everything after (1994)*****

Forse i più celebri di questa new wave del richiamo alle radici country rock sono i Counting Crows i quali, ancorché fortemente guidati a livello carismatico dal frontman Adam Duritz, in realtà sono composti da altri ottimi musicisti (al nucleo iniziale di quattro, se ne aggiunsero cogli anni diversi altri), affiatati e pronti a conquistare il mainstream. Il loro album d’esordio August and everything after è a tutti gli effetti il loro disco più bello e mai i ragazzi di Los Angeles riusciranno a superarne le vette estetiche, pur mantenendo sempre alta la qualità dei loro successivi lavori. Lo stile alterna brani elettrici più radiofonici, come quello della hit mondiale Mr. Jones – che li portò subito al successo su scala mondiale – o della splendida e trascinante Rain king, ad altri episodi dalle melodie decisamente più sghembe, e tutt’altro che immediate. L’esempio più evidente di quest’ultimo “indirizzo” è l’apripista Round here, che sa trasmettere con immediata efficacia il feeling del cantante che la interpreta in maniera viscerale. Già nei loro primi concerti (da non perdere quello pubblicato nel’edizione deluxe, a Parigi) la durata della canzone passava dai 5 minuti e mezzo della versione in studio ai quasi 12 minuti, con una dilatazione notevole degli intermezzi strumentali e dei vocalizzi, quasi strazianti, di Duritz. Ancora oggi è probabilmente il brano che più di tutti i fan dei Crows desiderano maggiormente ascoltare, come fosse un marchio di fabbrica segnato a fuoco sulla pelle della loro storia. Ci sono poi ballate “piovose” come Raining in Baltimore, o malinconiche come Sullivan street ed Anna begins ma anche la più acustica Omaha che riconcilia lo spirito con la sua cullante andatura midtempo e il suono roots che esce fuori grazie alla fisarmonica di Charlie Gillingham e il mandolino di David Immergluk (all’epoca non ancora nella line up ufficiale), confezionando un gioiellino incredibile. Fra i cori ci sono ospiti illustri (non a caso): Olson e Louris dei Jayhawks e la bravissima Maria McKee dei Lone Justice. La band è ancora viva e vegeta (l’ultimo album risale a tre anni fa) e ha un’attività live costante soprattutto sul suolo americano.

Album must have: This desert life (1999) **** / Hard Candy (2002) *****

Hootie & The Blowfish: Cracked rear view (1994) *****

Con i Counting Crows gli Hootie & the Blowfish hanno in comune sia l’anno d’esordio sia il fatto che il loro miglior album sia stato proprio il primo. La band della Carolina del Sud capitanata dal cantante Darius Rucker si presentò al pubblico con dieci canzoni orecchiabili già al primo ascolto e un sound fresco elettro acustico che uniti insieme furono come il cemento a presa rapida. La voce del frontman limpida e potente come quella dei grandi del soul risultò a tutti intrigante Cracked rear view conquistò subito l’America e di lì a poco arrivò in Europa, dove pescò nel medesimo lago in cui avevano lanciato le reti le band fino ad ora citate. In fin dei conti, canzoni come la ballata Let her cry o l’intrigante uptempo Only wanna be with you non potevano passare inosservate al grande pubblico con le loro melodie, né tanto meno poteva accadere a veri e propri inni, dominati dalle chitarre elettriche, come I’m going home e l’iniziale Hannah Jane. Questa ricerca del gancio facile fu il pregio, ma anche il limite, degli Hootie and the Blowfish perché già dagli album successivi risultò chiara l’impossibilità di indovinarne di nuovi in numero così elevato e l’entusiasmo tornò sui valori normali, mantenendo “fedeli alla linea” soprattutto i fan della prima ora, senza acquisizione di nuovi. Rucker nel 2008 decise così di intraprendere definitivamente la carriera solista (parallelamente iniziata già qualche anno prima), puntando sul country commerciale che tanto piace ai produttori di Nashville. Tuttavia, proprio in questi giorni è uscito, in parte un po’ inatteso, un loro nuovo album (lanciato dal singolo radiofonico Miss California) dal titolo Imperfect circle e dai primi ascolti a mio avviso ha buone possibilità di rilanciare il marchio, inevitabilmente un po’ arrugginito.

Album must have: Fairweather Johnson (1996) / **** Musical chairs (1998) ***

The Wallflowers: Bringing down the horses (1996) *****

Se esistesse un premio per il figlio d’arte musicista dall’eredità più pesante questo andrebbe sicuramente assegnato a Jakob Dylan. Nonostante l’inarrivabile vetta da scalare per dover dimostrare il suo valore effettivo, il carismatico ragazzo sapeva sin dall’inizio che almeno il cognome gli avrebbe permesso di farsi conoscere subito e nel 1992 uscì il primo disco, intitolato come il nome della sua band: The Wallflowers (che evocava, evidentemente, un brano piuttosto raro di Bob). In verità non ebbe un grande successo, a differenza del successivo Bringing down the horse del 1996, che è invece da considerare fra gli album più belli degli anni 90, una vera e propria delizia. L’intensa e ruvida voce di Jakob raggiunse finalmente le orecchie di persone che fino a quel momento non lo conoscevano ancora e anche per loro fu il singolo apripista a regalargli questo successo: One head light. Si tratta di un brano dalla melodia non facilissima, ma dal ritmo crescente e un progressivo crescendo avvolgente che, soprattutto se ascoltata in auto, sa regalare emozioni uniche. Al riguardo, neanche il resto del disco ne è avaro come ad esempio la ballata dinoccolata Three Marlenas, impreziosita dall’organo del tastierista Rami Jaffee, la lentissima Jospehine e soprattutto la desertica Invisible city che è forse il pezzo più bello mai scritto dal giovane Dylan. Pezzi più rockeggianti come la splendida 6th Avenue Heartache (che ai cori vede il corvo Adam Duritz) e l’incalzante The difference dimostrarono, inoltre, che da questo gruppo ci si potevano aspettare grandi cose. Sinceramente gli album seguenti, pur se leggermente inferiori, hanno confermato che a volte il motto “buon sangue non mente” è ancora valido (purché non ci si attenda una carriera come quella paterna, semplicemente irripetibile). Attualmente, pur avendo variato spesso la line up e non essendosi ufficialmente sciolti, i Wallflowers sono fermi al disco Glad all over del 2012, mentre il frontman ha promosso un disco di cover con molti ospiti per far rivivere il California Sound degli anni 60 (Echo in the Canyon).

Album must have: Breach (2000) ***** / Rebel, Sweetheart (2005) ****

Concludo questa “puntata” di Poker Sound ricordando innanzitutto come anche gli Uncle Tupelo (album di riferimento: March – 16 20, 1992) di Joe Farrar e Jeff Tweedy – dalle cui costole nasceranno gruppi importanti come Son Volt e Wilco – avrebbero meritato un approfondimento, in quanto in tutto e per tutto validi promotori dello stesso stile musicale, nel medesimo periodo storico. Parimenti, a mio avviso, gli Whiskeytown (ascoltatevi Strangers Alamanc del 1997) di Ryan Adams. Tuttavia, a differenza delle quattro band scelte nessuna delle due raggiunse all’epoca lo stesso livello di popolarità (che pure avrebbero meritato), soprattutto al di fuori dei confini nazionali. Discorso a parte, infine, per i R.E.M. di Stipe e compagni che invece giocarono proprio un campionato a parte e, soprattutto con l’uscita del loro capolavoro Automatic for the people del 1992, fornirono un contributo straordinario alla riscoperta delle radici del country rock. La loro esplosione planetaria aiutò tutte le band citate, fungendo loro da apripista verso la notorietà.

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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