Questa settimana SOund36 ha intervistato i Piccoli Omicidi, trio capitanato da Piergiorgio Bonezzi, alle prese con il loro primo album, Ad Un Centimetro Dal Suolo, realizzato per l’etichetta Still Fizzy Records, con la preziosa collaborazione artistica di Paolo Benvegnù.
“Ad un centimetro dal suolo” credo che rappresenti l’attimo prima di cadere. Qual è il trait d’union tra i brani dell’album?
E’ una percezione corretta. Il titolo “Ad un centimetro dal suolo” si presta, in verità, a molteplici interpretazioni: ad un centimetro dal suolo probabilmente ci siamo trovati tutti prima o poi nella vita. Quel giorno che eravamo talmente felici, innamorati e appassionati, che ci sembrava di non toccare terra, oppure quella volta in cui stavamo per toccare il fondo eppure quel piccolo spazio d’aria che ci separava dalla fine, ci dava ancora speranza. Un centimetro è uno spazio relativamente piccolo, ma magari sufficiente e anche necessario per separare l’uomo, che da sempre è istintivo e passionale, dalla concretezza del suolo, che a volte lo intrappola in maniera eccessiva.
Nella mia visione, tutte le cose che racconto nelle canzoni sono piccoli omicidi. Se diamo un volto alle nostre paure, alle nostre ansie, alle nostre complicazioni quotidiane, forse è più facile combatterle ed ucciderle. Da qui il nome Piccoli Omicidi, non abbiamo intenzione di uccidere nessuno, solo eliminare le cose che turbano la nostra esistenza, giorno per giorno.
La vostra band nasce nel 2005. Il vostro primo album arriva quindi dopo anni passati insieme a suonare e comporre musica. Immagino che in parte dipenda dalla difficoltà di trovare un produttore … secondo voi è un valore aggiunto?
In realtà abbiamo voluto fare le cose con molta calma. Non avevamo pressioni commerciali o scadenze di alcun tipo, “Ad un centimetro dal suolo” è il nostro primo lavoro, quindi non ci interessava realizzarlo solamente per “fare un CD”, volevamo un prodotto che ci caratterizzasse al meglio. Anche per questo abbiamo cercato di coinvolgere nel progetto anche un produttore d’eccezione come Paolo Benvegnù. Abbiamo lavorato in modo realmente indipendente, nel nostro studio, anche con materiale prestato e noleggiato e soprattutto nei momenti che ritenevamo più produttivi. Per noi lavorare con Benvegnù è stato sicuramente un valore aggiunto, e credo che lo sia, nel momento in cui l’apporto di un orecchio esterno valorizza semplicemente il prodotto e, come nel nostro caso, non lo snatura.
Vi siete dedicati a temi abbastanza lontani da voi, anagraficamente parlando, mi riferisco alla Resistenza, attraverso la figura del partigiano, e la tragedia del Vajont. Come mai?
Sicuramente può sembrare anomalo il fatto di trattare questo tipo di argomenti, non avendo, di fatto, vissuto direttamente le vicende della Resistenza o tragedie come quella del Vajont, per citarne una. È altresì vero che siamo direttamente eredi di queste vicende storiche. Fa paura accorgersi un giorno di aver dimenticato fatti come questi, forse perché troppo distratti e assuefatti dal vivere quotidiano.
La figura del Partigiano poi, geograficamente parlando, la sentiamo vicina. Ricordo, inoltre, il risveglio dal torpore che mi causò lo spettacolo teatrale di Marco Paolini. Da bambino, passavo sempre per Longarone, per andare in vacanza in montagna, e la mia famiglia tutte le volte mi raccontava la storia della Diga. Il fatto di aver rimosso il ricordo per tutti questi anni mi ha colpito. Le ultime catastrofi avvenute recentemente nel nostro paese, a Genova, ad esempio, sono, forse, indirettamente figlie della storia che troppo spesso dimentichiamo.
Tra gli undici brani c’è la bellissima cover di “Vedrai, vedrai” di Tenco.
Siamo molto legati la cantautorato italiano. “Vedrai, vedrai” mi ha sempre colpito, per la semplicità del testo e la profondità del significato. Un binomio che non è sempre così facile da trovare e riproporre. Per quello abbiamo creduto giusto reinterpretarla all’interno del disco, un raro esempio di bellezza nella scrittura di casa nostra. Si tratta, in effetti, di una plain cover, quindi non abbiamo apportato nessuna modifica al testo originale. Abbiamo semplicemente cercato di attualizzare, a livello musicale e di arrangiamenti, parole che affrontano un tema che è sicuramente perfetto per i nostri giorni, anche se scritto più di quarant’anni fa.
Uno dei brani che preferisco è “Il paese degli idioti”, è un riferimento al nostro paese o più in generale a una certa società tipica di molti paesi occidentali basata sul consumismo sfrenato e sul culto dell’immagine?
Sì, a rischio di risultare anacronistici e demodè, “il Paese Degli Idioti” è esplicitamente un brano di denuncia sociale. Fa riferimento, in generale, ai ripetuti assalti alla cultura e all’intelletto umani, da parte dei media e della televisione in particolare. Come se da trent’anni ci fosse un piano ben preciso, di anestetizzare il libero pensiero degli uomini, propinando sensazioni tranquillizzanti via etere, in modo da distogliere l’attenzione della massa, da quelli che sono i disegni oscuri dei poteri occulti. Una sorta di “Matrix” al primo livello. Non si fa esplicito riferimento all’Italia, in questo brano, ma forse, se esiste un disegno, nel nostro paese ha avuto più effetto che in altri.
Purtroppo credo che le nuove generazioni percepiscano questi messaggi come i soliti luoghi comuni, non intuendo che, se sono tali, forse qualcosa di vero e su cui riflettere c’è.