Mescola le carte in scena come un abile giullare esistenzialista, che non conosce maschere ma sa cullarsi tra atmosfere oniriche, di crudo realismo e di pungente ironia, Max Gazzè, che nel costruire il suo “Amor Fabulas: Preludio” è riuscito a comparire e scomparire dietro il sipario (complici suggestivi cornici di racconto scenografico) come accaduto nel Teatro Politeama “Mario Foglietti” di Catanzaro.
Il cantautore romano, rimanendo sempre un passo indietro rispetto alla scrittura e alla melodia, ha confezionato arrangiamenti esclusivi per i suoi brani (dai più recenti, ai successi storici, fino a canzoni proposte per la prima volta, live, in una chiave acustica pensata per i teatri), senza mai trascurare i lunghi assoli strumentali, la cui cifra multiforme ha vestito di nuova luce sonora il proprio repertorio.
Alternando vibrazioni intime ad incalzanti parentesi goderecce, Max Gazzè e suoi “musici erranti” (Cristiano Micalizzi alla batteria, Daniele Fiaschi alla chitarra, Clemente Ferrari alle tastiere, Max Dedo ai fiati, Nicola Molino al vibrafono e i cori di Greta Zuccoli), hanno mostrato ciò che “La musica può fare”.
Riflettere, divertire, incuriosire, emozionare, sono gli ingredienti di un processo creativo che tra ingranaggi, onde del mare, corporeità subacquee danzanti e distese di oscura limpidezza, hanno mantecato le pietanze di un leggero ma lauto banchetto, in cui nulla accade per caso. Ogni nota è un espediente per poter immergersi con la stessa serietà nella perdita di senso (e della sua sfumatura di gravità) propria di questo mondo dilaniato dalla morte, dal dolore e dalla guerra che paiono quasi un poema epico a cui occorre non assuefare la coscienza, abbracciando poi il ritmo del tempo che come una biglia si agita tra assolutezza, relatività, intuizione interpretativa e forse qualcosa di ancor più intangibile ed istintuale.
Max Gazzè, il filosofo, il menestrello, l’uomo e l’artista, battezzando una catarsi del corpo e dell’anima, cuce tra le strofe ed il pentagramma, un promemoria in cui rigore etico e scanzonata attitudine, si contendono la stessa partitura.
Il diaframma della profondità si apre così persino all’ irriverenza, alla dolcezza, al non senso, senza mai apparire difforme dalla realtà insita in ciascuno e forse comune a tutti, rendendo il teatro un’astronave o un micromondo.
La figura di chi canta e suona si fa, nell’idea concertistica di Gazzè, volutamente evanescente per lasciar spazio a ciò che la quotidianità vissuta dietro ad uno schermo, pare aver prosciugato: l’inclinazione immaginifica e l’incidenza del pensiero che si fa azione.
Può la musica innescare tutte queste dinamiche?
Max Gazzé se lo domanda e intanto ne fa mestiere senza offrire soluzioni ma aprendo varchi di sinuosa, delicata e potentissima laboriosità.
Se è vero che “non son solo canzonette”, allora a furia di intonarle, diventeremo fabbri di sogni e di strade, artefici e spettatori che si muovono su scenari cangianti, come solisti oppure orchestre che non si stancano di ascoltare e cantare. Questo sembra volerci narrare Max Gazzè.
Non c’è luna che non si possa guardare, senza chiedersi cosa ci sia di male ad essere quel che si è, a parlare di sesso, d’amore, di religiosità e di militanza laica, restando figli e padri fragili, cresciuti nella genealogia di Adamo ed Eva. Una favola dal finale agrodolce, simile alla vita, di cui esser padroni ed invitati come fosse una grande festa.
Articolo e foto di Roberta Cricelli