Marika, quanto ti rispecchia la frase di Duke Ellington?
Moltissimo, durante la mia formazione classica ero portata a vedere il Bello solo nella complessità e nell’elaborazione formale, nelle fughe di Bach, nelle sonate di Beethoven, nelle composizioni più moderne di Ravel… era tutto semplicemente perfetto ed intenso. Ma non bastava. E così ho scoperto la disarmante Bellezza del “Semplice” qualche anno dopo ascoltando un concerto di Cristina Renzetti, in una singola linea melodica cantata “per davvero” a cappella, senza strumenti che la accompagnassero o che le facessero un contro canto.
Stava cantando un brano della tradizione brasiliana, a cappella appunto, con un’intensità unica, ed era tutto lì, scolpito nel silenzio: Bello ed Unico. Lì ho capito che non è per forza la complessità e il difficile che emoziona ma, appunto tutto ciò che è Vero, che è Sincero, che è Bello appunto.
Tu nasci, se possiamo dirlo, come musicista classica; poi scopri il jazz, dove ti piace stare anche perché a differenza della musica in generale, puoi sperimentare e spaziare a tuo piacimento.
E’ proprio così, il Jazz stesso si è evoluto nel corso della storia come strumento di ricerca sempre in profondo mutamento spinto da una ricerca espressiva e anche esistenziale, dallo swing delle grandi orchestre degli anni 20 e 30, al bebop, al free jazz di Ornette Coleman degli anni 60.. lo stesso Miles Davis ha incarnato in sé il mutamento dettato da un bisogno di una ricerca, e malessere continuo: dal bebop dei suoi anni della giovinezza a Kind of Blue al periodo elettrico. Speriementare per cercare, per dare un senso, una forma. O almeno cercare di trovarlo.
Così facendo, le tue collaborazioni cominciano a crescere sempre più: Fabrizio Bosso, Bob Stoloff, Rachel Gould, Bruno Tommaso, Misha Alperin, Marcello Allulli, per citarne alcuni. Che tipo di esperienza hai ricevuto nel collaborare con questi “mostri sacri”?
Con loro ho potuto lavorato all’interno di masterclass organizzate da associazioni che seguivo o all’interno del conservatorio… ognuno di loro ha portato la propria testimonianza su cosa significa cantare, suonare, essere e dire con la musica, e ovviamente era diverso per ciascuno di loro. Mi ha dato tantissimi input e materiale di studio poi.
E finalmente arrivi a “costruire” il tuo gruppo: i Grooving Birds, che come rivista abbiamo già recensito: era una serata live, a teatro nel 2020, tra una chiusura e l’altra causa pandemia, dove avete presentato il vostro disco “Amarcord”. Dei classici della miglior musica italiana, in chiave jazz. Veramente molto bello e significativo! Come è nata questa idea?
Grazie Ale! L’idea è nata da una mia esigenza di cantare in italiano. Avevo sempre cantato in inglese perché è la lingua internazionale, è la lingua del jazz… però mi mancava poter assaporare, come solo una madrelingua può, il peso ed il gusto espressivo di ogni singolo parola. Avevo bisogno di cantare nella mia lingua, in italiano. Ed è così che nasce “Amarcord” che vuole essere il primo, speriamo, di altre future nostre produzioni, già sto scrivendo brani originali miei in italiano a cui vorrei dare luce.
Guardandoti intorno, non trovi che la musica attualmente, sia alla ricerca di sé stessa? Mi spiego; la musica come tutte le forme d’Arte ha dei cicli, e i cicli finiscono. Tutta la musica la trovo ripetitiva, non c’è coraggio di sperimentare. Sei d’accordo?
Non so… Probabilmente guardando dal lato formale si, ad esempio la storia della forma “canzone” nasce dal medioevo e ce la ritroviamo ai giorni nostri. Ma la chiave di lettura, così come per me è il Senso dell’Arte, credo debba essere come dicevo prima, la Sincerità di quello che si fa e si produce: se c’è Sincerità, se si È in quello che si fa allora non ci può essere noia in chi ascolta, non c’è nuovo o vecchio perché ogni espressione è Sincera, Unica e quindi Preziosa. Poi può non piacere, ma quelli son gusti, dipende dalla sensibilità di ognuno.
Non sono una sostenitrice che l’Arte debba sempre per forza innovare se no non è arte. L’Arte, per me, deve Dire ed Emozionare. Se poi l’artista è un Innovatore allora è un valore aggiunto, ma lo è perché lui stesso è quello.
La ricerca costante di “diversicare” il tuo stile, mettendolo al servizio di giovani musicisti, ma anche affrontando nuove strade musicali, come per esempio gli “Altare Thotemico”, ti aiutano a scoprire nuovi orizzonti? Aggiungo anche, che da tempo, stai affrontando una nuova sfida con il “visual/art dei Wabi Sabi Ensemble”…
Si, mi stimolano, plasmano la mia creatività e la mia fantasia, mi permettono di spingermi in territori in cui non avrei mai creduto di poter appartenere. In un certo senso effettivamente non mi sento di appartenere a un genere definito, categorico; mi piace pensare di porre la mia creatività al servizio di un’Idea Artistica rimanendo però fedele a me stessa, al mio timbro vocale per esempio, o al mio gusto personale.
Gli Altare Thotemico e Wabi Sabi sono spazi e mondi sonori succulenti!
Una tua frase ricorrente è: tutto ciò che ha un “potenziale stimolante di interpretazione”. Ci puoi spiegare la tua filosofia musicale?
Certo: il potenziale stimolante è tutto ciò che permette di dare forma alla mia creatività e fantasia e che posso interpretare a mio modo, fedele, come dicevo prima, a me stessa. Credo che sia così in realtà poi per ognuno di noi artisti, però nel mio caso mi piace pensarlo con queste parole, mi riconosco.
Sei anche un’ottima cantante. Ti trovo molto viscerale e con una sottile linea di malinconia. Ti ci rivedi?
Grazie!! Beh, si mi ci rivedo, dopo aver sperimentato diverse “tecniche” vocali con differenti Maestri, ho capito che la chiave espressiva non sta nella tecnica ma, come dice il mio Maestro attuale, sta nella Musica e quindi perché no, sta in noi, nelle nostre viscere.
Mi riconosco anche nella “linea malinconica” ma non vorrei “appesantisse” troppo l’interpretazione.
La vita è Bella e bisogna assaporarla e goderla, bisogna essere assertivi e pronti.
Nei “Grooving Birds” suona tuo fratello Matteo, definito da molti, il nuovo talento del jazz italiano e della sperimentazione. Quanto ha contribuito il suo stile e le ricerche sonore nel disco “Amarcord”?
Tantissimo, il suo apporto così come quello degli altri componenti: Francesco Zaccanti al contrabbasso e Riccardo Cocetti alla batteria. A casa pensavo, preparavo i brani, gli arrangiamenti, li ideavo ma prendevano forma poi solamente suonandoli con loro e quindi anche con le proposte ed idee… non nego che così come siamo entusiasti di alcuni brani, che ci coinvolgono e divertono come “Non potho Reposare” abbiamo anche cassato alcuni brani che giravano solo nella mia testa ma non tra di noi. Davvero questo disco è frutto dell’apporto personale di ciascuno di noi.
Chiudiamo la nostra chiacchierata con una domanda che rivolgo a tutti gli Artisti: questa lunga pausa forzata cosa ti ha fatto scoprire e cosa ti ha insegnato?
Aaaaaaaa…. Beh soffro di noia e questo lunghissimo anno senza stimoli, input, momenti di condivisione e di Bellezza è stato ed è tuttora davvero tedioso. Però mi ha insegnato ad aspettare, a scoprire la Pazienza e ad Ascoltare di più e con un orecchio diverso tutto: le lezioni con i miei allievi, il mio studio, le mie idee melodiche. Rallentare i ritmi di lavoro e delle giornate mi ha riportato a percepire diversamente il mio corpo e a un contatto più profondo con la natura.
Grazie Marika per questa chiacchierata e ti ringrazio anche a nome di Sound 36. Non vedo l’ora di riprendere le serate sospese!
Grazie a te Alessandro e a tutti voi, è stato un grande piacere per me.
Spero anche io di poter rivivere presto momenti di condivisione tutti insieme!!!
Intervista e foto: Alessandro Corona