Recensioni

Low – The Invisible Way

Scritto da Annalisa Nicastro

Quel che mi lascia perplesso prima, ma mi stupisce poi, è che la band sembra aver trovato la crescita artistica rientrando negli schemi classici della musica pop; questo potrebbe essere preso da qualcuno come un calo di creatività, ma poco importa quando la soluzione finale funziona.

Parto col dire che reputo “I Could Live In Hope” del ’94 uno degli album seminali post Nirvana e uno dei miei preferiti in generale; sicuramente il mio preferito dei Low.
E non lo dico per tagliare subito le gambe a “The Invisible Way” che anzi credo segni un passo avanti importante per la band del Minnesota.
Sebbene non tocchi i picchi di canzoni del passato come “Lullaby” o “Lazy”, l’album non richiede l’impegno emotivo di cui quei pezzi necessitavano per essere apprezzati; questo può far sì che il nuovo lavoro rimanga più a lungo nello stereo e nella nostra memoria pur essendo un ascolto più leggero.
Strutturato su una base country, si snoda in undici tracce di cui “Plastic Cup” è l’opener e anche la più orecchiabile.
I Low sembrano essersi scrollati di dosso definitivamente il marchio di pionieri slowcore; nonostante i pezzi mirino a valorizzare anche le dinamiche più deboli dei singoli strumenti c’è la tendenza a sconfinare e a calcare la mano.
Questo è più che mai evidente in pezzi come “Just Make It Stop” e “On My Own”, mentre rientriamo in territorio conosciuto con “Amethyst” e “Four Score”.
La caratteristica principale dei Low, ossia le meravigliose armonizzazioni vocali tra Mimi Parker e il marito Alan Sparhawk impreziosisce le composizioni dando ampio respiro all’album.
Quel che mi lascia perplesso prima, ma mi stupisce poi, è che la band sembra aver trovato la crescita artistica rientrando negli schemi classici della musica pop; questo potrebbe essere preso da qualcuno come un calo di creatività, ma poco importa quando la soluzione finale funziona.
L’estrema lentezza e lunghezza dei primi lavori era una risposta all’ondata punk distruttiva dei primi anni ’90 e in effetti ora, purtroppo per il rock, non se ne sente più il bisogno.

Emmanuele Gattuso

About the author

Annalisa Nicastro

Mi riconosco molto nella definizione di “anarchica disciplinata” che qualcuno mi ha suggerito, un’anarchica disciplinata che crede nel valore delle parole. Credo, sempre e ancora, che un pezzetto di carta possa creare effettivamente un (nuovo) Mondo. Tra le esperienze lavorative che porterò sempre con me ci sono il mio lavoro di corrispondente per l’ANSA di Berlino e le mie collaborazioni con Leggere: Tutti e Ulisse di Alitalia.
Mi piacciono le piccole cose e le persone che fanno queste piccole cose con amore e passione. E in ultimo vorrei dire che mica sono matta, ma solo pazza. Pazza di gioia.

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