Interviste

Livia Gionfrida

Scritto da Annalisa Nicastro

La mia poetica è fatta di cadute possibili, di continui slanci di gioia, di grande amore, di tentativi appunto rigorosi e di collettività. La mia poetica è sempre politica e cerca la relazione con l’Altro

E’stato in scena fino al 23 aprile al Teatro Biondo di Palermo e dal 28 aprile debutta al Teatro Stabile di Catania fino al 7 maggio. Centoventisei è lo spettacolo della regista Livia Gionfrida riformulato dal nuovo testo di Claudio Fava e Ezio Abbate, che ha una protagonista silenziosa, quella Fiat 126 che la mafia decide di rubare per compiere un attentato, uno di quelli tristemente passati alla storia.
Il testo, rielaborato dalla regista Gionfrida, corre tra cronaca, dramma sociale e commedia dell’assurdo e indaga, da una prospettiva storica del tutto inedita, uno degli eventi più importanti della storia italiana dell’ultimo trentennio.
“I personaggi, umili pupiddi manovrati da un destino di nascita, sembrano parlare ad un autore silente, un confessore che forse è anche puparo e si diverte con le loro vite”, dice Livia Gionfrida nella sua nota di regia. Racconta nella piece le personalità dei “pesci piccoli” dei clan mafiosi, quelli a cui viene dato il più semplice tra tutti gli incarichi. La loro quotidianità aberrante si rivela pian piano come l’assurdo terreno su cui si gioca la strategia stragista del biennio ’92-’93.

Quanto è importante proporre oggi al pubblico italiano quello che è stato uno degli attentati più tristi della storia italiana?
L’oblio è tomba della Storia e dunque della democrazia. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare quello che è accaduto, e per quanto siano storie davvero inaccettabili, ricordare e cercare di capire è l’unico modo che abbiamo affinché non si ripetano queste tragedie in cui l’ingiustizia ha trionfato.

Da quale punto di vista hai scelto di raccontare questa storia?
La storia che racconto all’interno dello spettacolo prende le mosse da un testo di Fava e Abbate che non vuole essere commemorazione e nemmeno cronaca.
Centoventisei parte da un fatto reale per poi allontanarsene. Nel mio spettacolo non racconto la strage ma la evoco attraverso la scena che si popola di elementi simbolici e attraverso la narrazione della vita di coloro che, in parte senza alcuna consapevolezza, hanno partecipato e alimentato il periodo stragista del ’92. Raccontiamo delle vite incastrate dentro un sistema mafioso che è anche un sistema “di pensiero”, una organizzazione da cui è difficile uscire una volta entrati. E nella quale è facile scivolare se si è nati in determinate condizioni sociali e, appunto, culturali.

C’è posto anche per il sarcasmo?
Nel mio teatro c’è sempre posto per l’ironia! Credo sia l’unico modo per sopravvivere alla vita e alle relazioni con gli altri. Chi non ride è perduto. Qua l’ironia inevitabilmente diventa amara.

Come ti sei trovata a “lavorare” il testo di Claudio Fava e Ezio Abbate per il riadattamento teatrale?
E’ stato un processo creativo lungo e molto appassionante in cui ho coinvolto, come faccio sempre, i miei attori e tutta la squadra creativa. Alessandro di Fraia che firma le luci e Giulia Aiazzi assistente alla regia sono da sempre collaboratori preziosi. Mi piace molto lavorare in gruppo. Proporre le mie visioni e farle verificare, contaminare o spostare dai professionisti con i quali scelgo di lavorare. Gli attori in particolare hanno sempre un ruolo centrale nel mio teatro e dunque anche nella mia drammaturgia. Intorno a loro costruisco la partitura che dovranno incarnare. Un abito “su misura”. Qui ho lavorato su tre splendidi compagni David Coco, Naike Sillipo, Gabriele Cicirello. Una bellissima squadra di cui amo prendermi cura.

Sei attenta ai linguaggi contemporanei visti sia come indagine estetica che etica?
Non cerco il moralismo nelle mie opere, queste sono sempre un tentativo di incontro con il pubblico sul campo della bellezza, che abita ovunque, al di fuori di stereotipi e leggi. Questo mi porta a non giudicare i personaggi che creo, come del resto faccio anche con i miei compagni di lavoro che in questi anni ho trovato nei teatri come nelle carceri, nelle accademie di teatro dove ho insegnato, così come nelle cooperative per l’accoglienza dei richiedenti asilo. I miei collaboratori sono persone straordinarie che cerco e avvicino per la loro profondità e per le capacità di creare insieme a me il teatro.
Non so cosa si intenda per linguaggio contemporaneo, ma sì, di certo cerco un incontro vero, concreto e presente ogni volta. E ad ogni spettacolo parto da un’idea, per poi definire gli strumenti e la grammatica più giusta (fatta di danza, musica, parola) da utilizzare per quel determinato progetto e per quel gruppo di attori. Vivo il Teatro come un rito laico politico e necessario, che è sfuggente e va cercato di continuo, ogni giorno, con pazienza e rigore.

Quanto è importante il teatro per la costruzione di una coscienza critica delle persone?
Ci restano pochi momenti di incontro “fisico”. Le nostre comunità sono sempre più proiettate in un mondo virtuale in cui i corpi non trovano spazio. Credo che inevitabilmente più si andrà avanti con questa forma di progresso (o di involuzione! …dipende dai punti di vista), più il rito della performance sarà necessario. Del resto la funzione politica del Teatro mi ha sempre affascinata proprio per questa sua intimità condivisa. L’intimità di corpi che si trovano nella bellezza e lì si ascoltano. Mi pare che questo oggi non possa che assumere ancora più valore visto che altri riti e luoghi in cui si faceva politica e in cui ci si poteva appunto incontrare per esprimersi e comprendersi, sono ormai al declino o seppelliti da tempo.

Nel 2018 vinci il Premio della Critica – A.N.C.T.. con la seguente motivazione: “la straordinaria densità culturale ed emotiva delle opere di Livia Gionfrida, regista, drammaturga e attrice di magica forza espressiva”. E ancora, per “il coraggio, nell’estrema fedeltà alla propria poetica. Il mettersi alla prova ogni volta in nuovi campi della ricerca, sensibile a ogni forma d’arte, sapendo rendere “popolari” anche le citazioni più colte e raffinate.”. Puoi dirci in breve la tua poetica?
La mia poetica è fatta di tentativi, il tentativo è quello di corpi umani che si incontrano in un luogo di condivisione fisica. Il Teatro e la sua ricerca.  Uomini e donne che depongono armi e cellulari, e si riconoscono attraverso la bellezza che è l’unica risposta che abbiamo per difenderci dal brutto imperante che ci rende tutti soli, uguali, e infelici. La mia poetica è fatta di cadute possibili, di continui slanci di gioia, di grande amore, di tentativi appunto rigorosi e di collettività. La mia poetica è sempre politica e cerca la relazione con l’Altro.

Quali sono gli autori e le autrici (italiani e non) che sono da sempre i tuoi punti di riferimento?
Ci sono autori che considero maestri della mia pratica teatrale. Giovanni Testori . Samuel Beckett. W. Shakespeare. Franco Scaldati.

About the author

Annalisa Nicastro

Mi riconosco molto nella definizione di “anarchica disciplinata” che qualcuno mi ha suggerito, un’anarchica disciplinata che crede nel valore delle parole. Credo, sempre e ancora, che un pezzetto di carta possa creare effettivamente un (nuovo) Mondo. Tra le esperienze lavorative che porterò sempre con me ci sono il mio lavoro di corrispondente per l’ANSA di Berlino e le mie collaborazioni con Leggere: Tutti e Ulisse di Alitalia.
Mi piacciono le piccole cose e le persone che fanno queste piccole cose con amore e passione. E in ultimo vorrei dire che mica sono matta, ma solo pazza. Pazza di gioia.

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