Interviste

Kutso, Intervista

In “Che Effetto Fa” ci sono cambiamenti enormi di sonorità e produzione

Il 19 Ottobre, abbiamo raggiunto telefonicamente Matteo Gabbianelli, voce dei Kutso. La sera stessa la band romana darà inizio al “Che Effetto Fa” tour, con la data zero al Dejavu Drinkandfood di Sant’Egidio Alla Vibrata, in provincia di Teramo.

Da poco è uscito Che Effetto Fa, il vostro nuovo disco. Ce ne vuoi parlare sottolineando, magari, le differenze con i precedenti lavori firmati Kutso?
Questo è un album in cui abbiamo aggiunto pesantemente l’elettronica. E’ stato il frutto di un lavoro di equipe, d’insieme, nel senso che io ho scritto le canzoni, come sempre chitarra e voce, in solitudine. Però questa volta alla produzione ho voluto farmi accompagnare da Marco Fabi, cantautore e producer della scena romana. A questo si è aggiunto anche il cambio totale di line up.

Queste differenze stilistiche rispetto al passato possono derivare proprio dal repentino cambio di formazione?
Questo è un gruppo à la Foo Fighters, cioè, c’è un direttore d’orchestra, che sono io, e poi ci sono Luca Lepore al basso, Brian Riente alla chitarra e Bernardino Ponzani alla batteria. Con i loro stili mi danno degli input diversi e probabilmente questo disco non sarebbe potuto essere così con la vecchia formazione. Con loro si sarebbe andati in un’altra direzione.

Come è caduta la scelta del titolo su “Che Effetto Fa”?
Proprio per questi cambiamenti enormi di sonorità e produzione. Quindi, non ci sono più chitarre distorte, dal Rock ci siamo spostati un po’ più verso il Funk nero anni ’70 misto a tante altre cose. Quindi “Che Effetto Fa” è la domanda che ci siamo posti in primis noi. Questo è un lavoro in cui crediamo tantissimo, ma essendo un lido che non conosciamo completamente, chiediamo a noi stessi e alle persone che lo ascolteranno: << Chissà che effetto fa >>. Non ho messo il punto interrogativo nel titolo perché, secondo me, la risposta è nel disco stesso.

Quali artisti hanno influenzato la storia della band e la tua in particolare?
Ho imparato a cantare con gli Iron Maiden, con i Deep Purple. Poi sono passato a Stevie Wonder, alle cantanti Jazz e a tanti altri interpreti che fanno parte del mio bagaglio giovanile. Mentre ascoltavo queste cose raffinate, andavo poi nei centri sociali a vedere i gruppi Punk e sono uno di quelli rimasti folgorati dai Nirvana. Tutto ciò ha fatto parte del mio imprinting musicale. Aggiungerei anche la tradizione romana: Gigi Proietti, quando canta, e Claudio Villa. Mi piace anche la musica etnica, quella antica e non le rivisitazioni moderne. Insomma tutta questa ricerca disordinata, questo minestrone, prendendo un po’ quello che mi capitava sotto mano, un po’ quello che trovavo alla cieca, sono i Kutso.

Cosa c’è dietro ai vostri live: studio o improvvisazione?
L’intenzione è quella di fare spettacolo, di far passare momenti di coesione al pubblico, dove oltre alla musica ci sono anche le immagini. Abbiamo iniziato con l’improvvisazione, ma spesso succedeva che me ne uscivo con una battuta, poi vedevamo che quella battuta funzionava e allora la portavamo per tutto il tour. Diciamo che se uno viene a vederci alle prime date trova più improvvisazione rispetto alle ultime.

Nel 2015 avete partecipato a San Remo con il brano “Elisa”. Cosa ricordi di quella esperienza, che stato d’animo ti suscita e se la rifaresti?
Ricordo l’impegno e la determinazione con cui ero andato al Festival. La serietà forse eccessiva con cui l’ho affrontato, perché, per me, importava soltanto venire bene in video, nel senso che quello che facevamo arrivasse alle persone. Io quando stavo lì non mi sono divertito, stavo sempre concentrato. Se c’era un’intervista importante, dovevo dire le cose che dovevo dire. La vivevo in perenne tensione, non per l’emozione ma per la volontà di non perdere questa occasione per fare un salto importante. Per una settimana è stato un rullo compressore infinito. Nonostante questo, la rifarei perché io faccio tutto il possibile per dare visibilità al progetto.

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Giovanni Panebianco

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