Recensioni

Iron Maiden – Senjutsu

Scritto da Gigi Fratus

Up the Iron’s! Un album che afferma con voce chiara e forte che i sovrani dell’heavy metal sono e rimangono ancora loro… Gli Iron Maiden

La prima riflessione che mi balza in testa è che il nuovo album della “Vergine di Ferro” è vecchio di due anni! Ciò premesso, isuoni sono attualissimi e la struttura compositiva dei brani eccellente come sempre, poi… poi viene tutto il resto.
Da vecchio estimatore dei Maiden (vista l’età non più verdissima), devo riconoscere che la verve stilistica di Harris & co. sta tornando a buoni livelli, eccelsi aggiungerei, perlomeno in un paio di episodi di questo album (Parlophone Records – 2021) declinato, nel concept, verso Oriente. Le cavalcate alla Run to the Hills, per intenderci, sono lontani ricordi e lasciano spazio alle spaziose visioni prog di uno Steve Harris che ha ancora molto, moltissimo da dire. Brani che sono vere e proprie suite sia per lunghezza che per ricchezza di contenuti. Un album che dovrebbe mettere pace tra i fan della band da sempre divisi dalla produzione pre e post anni duemila. Ecco, Senjutsu è il perfetto trait d’union tra le due anime dei pionieri della NWOBHM, l’anello di congiunzione che pare mancare da sempre.
Si parte con la title track. Senjutsu: Un brano che già dall’incipit ci fa precipitare dentro nell’atmosfera maideniana più completa. Nicko dà sostanza, le chitarre del trio ricamano melodie intrecciandosi tra loro, Steve Harris… beh fa lo Steve Harris al 100% e, dulcis in fundo la voce di Air Siren Dickinson riesce a fondere tutti gli elementi facendoli diventare un tutt’uno. L’incedere ipnotico di Nicko sulle pelli ci trasporta in una sorta di estasi sciamanica. In estrema sintesi: brano riuscitissimo.
A Seguire Stratego, un brano che ci riporta indietro nel tempo, con le classiche chitarre a creare le cavalcate furiose alle quali gli Iron difficilmente rinunciano. Batteria e voce la fanno da padrone mentre Smith/Muirray e Gers schitarrano come ai bei tempi. Le linee melodiche di Harris danno il giusto ritmo al tutto. Singolo da paura!
E venne il tempo del primo singolo estratto The Writing On The Wall: un singolo di ben 6 minuti e rotti. Con le sue atmosfere southern, che, se non sapessimo scritto oltre due anni fa, potremmo considerare un omaggio alla recente scomparsa di Dusty. Arpeggione in intro e chitarre distorte a seguire costruite su di una linea di basso di assoluto spessore, con la batteria a dare sosotanza. Poco oltre la metà del brano parte il primo dei due assoli di un Adrian Smith in stato di grazia! Mid tempo che, dal vivo sarà una vera bomba.
Lost In A Lost World è un brano che ci lascia di stucco, sia al primo impatto che dopo svariati ascolti. Il pezzo ha la classica struttura delle composizioni in solitaria di Mister Harris. Con qualche fronzolo di troppo ma che comunque funziona, in definitiva uno dei miei preferiti, grazie alla moltitudine di variazione di qualche giro che ci riporta indietro nel tempo.
Day Of Future Past: la song più corta dell’intero album, parte da subito decisa ed incazzata, tosta.
La coppia Smith/Dickinson quando si mette di buzzo buono sforna sempre ottime canzoni. DOFP non fa altro che confermare la bontà del loro connubio. Voce cattiva il giusto, sezione ritmica che colpisce duro senza cedimenti, un pezzo centrato, in ogni dettaglio.
Un’altra coppia che è solita sfornare brani di assoluto valore è quella formata da Steve e Janick ed in The Time Machine anche loro danno prova del feeling che da ormai tre decenni li assiste. Inizialmente si poggia su chitarra e voce fino al momento in cui le tastiere (per la prima ed unica volta utilizzate con sentimento) non danno aria alla melodia. E da qui parte un susseguirsi di riff che travolge tutti fino quasi a metà canzone. Venti secondi, venti di break e si riparte cavalcando note su note. Da sottolineare le linee vocali di Bruce che da, una volta di più dimostrazione di essere in gran forma dopo l’intervento alla gola. Una cavalcata travolgente dove l’assolo di Murray trova libertà di sfogarsi appieno. Gran bel pezzo!
Darkest Hour è la “ballad” di Senjutsu. Un brano che starebbe bene anche in uno qualunque degli album solisti di Dickinson e firmata in coproduzione con Smith. Un brano dove le venature rock blues tanto care alla coppia si esaltano grazie alla voce di Bruce che ha il potere di stregarci ogni volta che va a posarsi su quei registri bassi che usa. Da sempre. Con estrema parsimonia, per poi tornare a dare respiro ad una delle voci più belle del panorama metal e non solo. Il solo di Murray (peraltro doppio), è qualcosa di mistico, ti entra nella pelle e scuote le viscere fin nel profondo. Brano epico.
L’ultimo trittico di canzoni che vanno a chiudere l’album ha una durata media di 11 minuti per nulla pesanti o scontati. Si parte con Death Of The Celts, per proseguire con The Parchment e concludere alla grande con quello che diverrà sicuramente uno dei brani da scolpire nella pietra.
DOTC contiene di tutto e di più. Non puoi definirlo, etichettarlo, ci sono le cavalcate in pieno Harrisstyle, passaggi prog, la rabbia primordiale dell’heavy metal più puro ed ancora qualche spruzzata marcatamente southern/folk, Dieci minuti che trascorrono in un lampo, anche grazie alla compattezza del drumming ed alla profusione mai ridondante comunque, di una tonnellata di riff. Diversamente la seconda canzone del trittico ha una parte centrale “stanca” ma l’incipit mi ha fatto esclamare “Oddio un brano dei Doors, o dei Blues Brothers” ma solo per pochi, pochissimi secondi.
Non l’ho ancora detto ma una delle cose pià deludenti nella carriera degli Iron è l’incapacità cronica di utilizzare in maniera costruttiva le tastiere (fatta eccezione per SSOASS, naturalmente ma è proprio l’eccezione che conferma la regola). Sembra quasi una sorta di maledizione oscura (e magari se le eliminassero completamente la cosa non mi dispiacerebbe affatto ), mo proprio non c’è verso, tranne qualche isolato caso di fare un utilizzo proficuo di tale strumento.
The Parchment soffre di questo così come soffre dell’essere logorroico dal punto di vista compositivo di Harris. Il brano è sorretto dagli intrecci solistici dei tre axe-men. Anche la voce di Bruce non sembra essere convinta fino in fondo pur districandosi su vari registri. Un brano che, probabilmente merita un ascolto più approfondito e meno critico, ma per ora resta un brano che non mi convince molto.
La chiosa dell’album viene affidata invece ad un brano che definire spettacolare è riduttivo. Intro di tastiere per una volta azzeccate, linea di basso in arpeggio ed una chitarra che si adagia con dolcezza su tutto questo fino a che, inaspettatamente parte la cavalcata Maiden per antonomasia. Quando poi Dickinson attacca, la sensazione di epicità tipica del Maiden style espolde in tutto il suo fragore. Certo la struttura melodica pesca qua e là dall’intera discografia ma un è un dettaglio. Dopo 17 album è impossibile non essere influenzati da ciò che si è scritto in oltre 40 anni di onoratissima carriera (il periodo Blazey, non incensiamolo troppo), e aggiungo: non è certo un album che resterà impresso come Powerslave ma sicuramente è l’album migliore da ventanni a questa parte. Un album che afferma ancora con voce chiara e forte che i sovrani dell’heavy metal sono e rimangono ancora loro… Gli Iron Maiden, la più grande band heavy metal di tutti i tempi!
Up the Iron’s!

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About the author

Gigi Fratus

Nato a Seriate (Bg) nel 1969, due grandi Amori, mio figlio Mattia e la mia Morgana, un’Aprilia RSV del 2003.

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