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Frammenti disordinati di memoria di un pellegrinaggio ad Auschwitz

Scritto da Giovanna Musolino

Volti emaciati, sguardi inespressivi, ormai incapaci finanche di provar dolore; prende forma il concetto di identità annientata

 

Una scritta, non priva di qualche pregio artistico, che inneggia al potere liberatorio del lavoro; una schiera di robusti e ben costruiti edifici in mattoni rossi: a ignorar la storia si potrebbe pensare di essere capitati in un villaggio operaio modello, di inizio Novecento.
Or incominciano le dolenti note a farmisi sentire (Dante Inferno V)
La sensazione di “normalità” dura un istante. Una lieve torsione del capo verso destra: gli alti pilastri in cemento armato, percorsi dal filo spinato elettrificato, cominciano a palesare l’atrocità di quel luogo. È Auschwitz-Birkenau, il campo di lavoro, concentramento e sterminio nazista più grande e articolato fra gli innumerevoli disseminati in giro per l’Europa. È il lager in cui “l’efficienza” hitleriana raggiunge il suo acme, spegnendo la vita di oltre un milione di esseri umani: Ebrei, Prigionieri di guerra e politici, Rom, Sinti, Testimoni di Geova, Omosessuali, Asociali.
Inevitabile accostare il viaggio ad Auschwitz alla dantesca discesa agli inferi; proprio come l’addentrarsi nei gironi infernali rivela un dolore sempre più acuto, così l’iter dolorosum attraverso i block conduce ad atrocità crescenti.
Ricordi non sbiaditi, immagini vivide e ben impresse nella memoria. Una lunga teoria di foto che ritraggono uomini e donne, che hanno trascorso una parte della loro vita nel campo e, forse, vi hanno trovato la morte. Uno stinto e impolverato fiorellino di plastica accanto a qualche ritratto. Volti emaciati, sguardi inespressivi, ormai incapaci finanche di provar dolore; prende forma il concetto di identità annientata.
Considerate se questa è una donna,
 senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
 vuoti gli occhi e freddo il grembo (Primo LeviSe questo è un uomo)
I cumuli, di scarpe, di protesi, di valigie, di stoviglie, di occhiali fanno scontrare con la realtà agghiacciante dei numeri.
La catasta di chiome rende intellegibile quella che Primo Levi ha chiamato “opera di bestializzazione”, privati dei vestiti, un numero marchiato a sostituire il nome, i capelli tosati, come le pecore.
Considerate se questo è un uomo 
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
 che muore per un si o per un no (Primo Levi- Se questo è un uomo)
I bassi soffitti delle camere a gas, dotate di finestrelle, da cui si lanciava lo Zyklon B, il potentissimo insetticida in grado di sterminare grandi masse in breve tempo.
I forni crematori, ennesimo, raccapricciante esempio di funzionalità ed efficacia nazista: con un’unica operazione eliminare le prove e il fardello della sepoltura faticosa e igienicamente inadeguata.
Il freddo mattino novembrino, con il suo grigio plumbeo cede il passo al tramonto di un rosso infuocato, esagerato.
Ad Auschwitz si va in pellegrinaggio (Liliana Segre).
Un pellegrinaggio straziante, ma necessario per onorare la memoria dei milioni di vittime innocenti e per espiare l’appartenenza al genere umano.
Tornando a Cracovia, in un silenzio che non dà pace, alla ricerca disperata di risposte non trovate, la sensazione è quella che racconta Primo Levi:
“Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio.”


Articolo di Giovanna Musolino
Fotografie di Alessandro Suraci

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Giovanna Musolino

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