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Poiché non potremo fermarci per la morte

Scritto da Cristina Capretti

25 Novembre: Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne

“Poiché non potevo fermarmi per la morte,
lei gentilmente si fermò per me.”

Emily Dickinson

Via quel trucco, ha detto.
L’ho tolto. Io come le altre.
I capelli è meglio coprirli. Tutti, ha detto.
Li ho raccolti. Io come le altre.
Niente calze, gambe nude.
Nude anche le braccia: solo una canottiera, sotto il camice.
Avremo freddo, ma così deve essere.
E così è, certe volte. Quando si è spogli e raggelati dall’assenza della libertà più importante: quella di essere.
Soprattutto donne.

Il regista è perentorio.
Nessuna edulcorazione, quando si denuncia un malessere profondo, un sopruso, una condizione sbagliata, una società che non reagisce ai drammi individuali figliati da irrisolti drammi collettivi.
E nell’ideare ‘Right’, pluripremiata performance di teatro-danza portata in scena da due anni con la C&C Company (di cui è co-fondatore) e la Compagnia Opus Ballet, il coreografo e artista transdisciplinare Carlo Massari ha avuto le idee ben chiare e il suo racconto scenico sull’insostenibilità di un sistema sociale violento e prevaricatore sceglie, infatti, un’azione narrativa brutale, che sferza l’inerzia civica e traduce con crudezza la sofferente consapevolezza dell’oltraggio umano e civile imposto da certe oscure supremazie, su persone o animali indifferentemente.

Ho accettato di andare in scena in ‘Right’, sposandone pienamente la causa artistica e civile, ben sapendo a quale inevitabile tumulto di coscienza sarei andata incontro.
Perché la scena, unica, è quella di un laboratorio/lager in cui si allevano giovani vergini per null’altro scopo che la procreazione. Forzata, non scelta. Imposta, non assistita. Animali, non donne, come scrofe in un allevamento intensivo. Con sei mammelle, dunque, non due. Sei, come le vergini scelte. E sei le carceriere, un tempo giovani vergini anch’esse e anch’esse madri senza mai volerlo, senza scelta possibile. Tre volte lo stesso numero ed è perciò l’inferno, che muove la sua danza macabra sulle note – non a caso – de ‘Le Sacre du Printemps’ di Igor F. Stravinskij, di cui mutua e rielabora il tema del rito sacrificale propiziatorio, ma mortale.

Conosco la tensione che entra in camerino senza bussare e si accuccia accanto agli artisti prima di ogni spettacolo.
Fa parte del gioco, quando è serio.
E seriamente, stavolta, con il pubblico già in fila al botteghino dell’imponente Spazio Rossellini di Roma, mi tremano le mani mentre mi preparo a diventare una delle sei aguzzine e indosso la canottiera biancastra, calzo gli stivali di gomma da macellaia, mi abbottono il camice verde.
Tremo, però non è il freddo, no.
Le dita ghiacce non riescono ad annodarmi il fazzoletto verde in testa, per coprire i capelli: me lo fa la Pina, che in ‘Right’ è la Kapò di noi carceriere e da sempre fa parte del cast, con il piglio riconoscibile di chi ha fatto il ’68.

Pronta e in costume, mi guardo allo specchio.
Labbra e occhi severi, dovuti, senza forma.
Meccanicamente, infilo i guanti di lattice in una tasca e qualche zuccherino nell’altra: servono in due quadri scenici, elementi di sopraffazione.

Busso al camerino delle danzatrici.
Le trovo tutte lì, già pronte.
Aura, Sofia, Ginevra, Stefania, Giulia, Rebeca.
Mi sorridono.
Sono giovani e di gran talento, un bel curriculum alle spalle, un presente attivo e tanta danza futura che certamente le aspetta, per quell’entusiasmo artistico con cui hanno, da sole, trasferito a noi attrici coinvolte in ‘Right’ i rudimenti scenici, l’ascolto corale e il vero senso della performance.
Studiando insieme a loro i passi e le coreografie, pelle a pelle, ho avuto la limpida, bella sensazione di un dialogo fra generazioni, in una sorta di passaggio di consegne tra donne civicamente sveglie e consapevoli che ogni linguaggio, ogni momento, ogni opportunità – teatrale e no – è sempre un’occasione per rivendicare diritti negati.

Sulla porta del camerino le guardo, una ad una.
Sono bellissime, nonostante i capelli scomparsi in un’acconciatura da uccellini spiumati e un nude look di scena volutamente spiazzante.
Sofia mi cuce al volo un bottone saltato via dal camice, che mi restituisce con un bacio. Dovrò dimenticarlo quando saremo in scena e proprio io dovrò maltrattarla con impeto meccanico, altrimenti non riuscirò a essere inumana a dovere. Così come dovrò dimenticare, mentre le umilierò a favore di platea davanti a spettatori attenti e attoniti per l’asprezza del racconto, anche l’energia viva di Aura, la forza sfidante di Giulia, la tempra empatica di Rebeca, l’anima condivisa di Stefania, la potenza espressiva di Sofia, il vigore incisivo di Ginevra.

Inizia la performance e mi impazzisce il cuore, per tutto il tempo.
Un’ora e qualche minuto.
Per un’ora e qualche minuto a ogni azione, a ogni passo, a ogni sonorità o silenzio, ogni luce o buio, il mio battito è forte, rapido e doloroso, come un chiodo ficcato in petto.
Ma devo essere spietata e da attrice, sotto i riflettori, lo sono.
Più la storia si snoda, più preme il tentativo delle fanciulle di inceppare un meccanismo perverso di oppressione, più reprimono le carceriere del sistema e più il chiodo mi affonda dentro.
Fino all’ultimo secondo.
Fino al finale, aberrante e rosso.

Anche dopo, però.

Quando, sciolti i capelli e tolti gli stivali inzaccherati, mi lascio andare al balsamico girotondo di abbracci con le compagne e soprattutto con le ragazze, giovani donne piene di vita che mai, mai vorrei vedere in pericolo di prigionia politica e sociale o psicologica ed emotiva.
Né loro né altre, mai, se poi le cronache nazionali ed estere, invece, straripano quotidianamente di sparizioni, di arresti, di morti bianche, di femminicidi, di violenza di genere.

Allora, materna davvero e solidale, stringo forte a me le danzatrici e lo so che non possono saperlo, ma mentre le abbraccio il mio pensiero è saldo nella convinzione che non esiste una sola ragione, neppure una, per cui un individuo debba mai accettare la violenza di un regime, di una ideologia, di una prassi sociale, di un amore malato, di una manipolazione perversa senza provare a sfidarla con un ‘no!’ in nome della propria singolarità, del proprio valore e, ricorrendo alle parole di Gandhi, “del proprio onore e della propria anima”.
Della propria libertà.
E se donna, ancora di più.
Perché, nello scorrere del tempo, è sempre meno sopportabile essere donne come si deve, come ci è dato, come si può.

About the author

Cristina Capretti

Scrivo, pubblico, traduco, comunico, apro porte. Palcheggio, per mai finito amore. Tutto "tra memoria e oblio".

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