Interviste

Doro Gjat, Intervista

Scritto da Annalisa Nicastro

“Io sono ‘vero’, racconto quello che vedo, vivo e conosco, senza scopiazzare nessuno e senza parafrasare goffamente l’estetica di un ghetto nel quale non ho mai vissuto”, Doro Gjat

Doro Gjat è un artista hip hop friuliano conosciuto anche per far parte dei Carnicats. “Via Fradi” è il suo nuovo lavoro e sta avendo molti riconoscimenti dalla critica specializzata. A noi di SOund36 è piaciuta la sua freschezza e la sua sincerità nel proporre un hip hop senza caricature e costruzioni forzate, leggete la nostra intervista e capirete il perchè.

Doro Gjat “non ha tatuaggi, è “montanaro”, ha un low profile sui social… di quale tipo di Hip Hop si fa portavoce?Penso che il mio sia un modo come un altro di dare una lettura personale a qualcosa che, per sua natura, poco si adatta all’ambiente da cui provengo. Ed è un procedimento che molti artisti hip hop già fanno, ognuno a modo loro e rapportandolo all’ambiente dal quale provengono. Trovo che sia doveroso perché altrimenti si cadrebbe nella mera emulazione di qualcosa che non ci appartiene; diventerebbe uno scimmiottamento, se mi passi il termine. Stiamo parlando di una cultura metropolitana nata nei ghetti neri e ispanici del nord America, se si mettesse in dubbio la sua capacità di adattamento non si riuscirebbe a spiegare la sua capillare diffusione a livello globale; non ci sarebbe il rap in Brasile, in Alaska, in Congo, in Francia e via dicendo… Il procedimento che faccio io per renderlo personale è lo stesso che in molti hanno fatto prima di me in ogni angolo del globo, anche se, venendo da un paesino schiacciato tra le alpi carniche, ho dovuto ‘forzare un po’ la mano’, mettiamola così! (ride, n.d.r.)

Nel tuo disco d’esordio “Vai fradi” ci sono principalmente due temi trattati: la provincia e l’emigrazione, ce ne parli meglio?
I due temi a cui fai riferimento sono uno la conseguenza dell’altro. Mi spiego: parlare della provincia è semplicemente un modo per raccontare qualcosa che conosco bene usando un linguaggio efficace come quello del rap. E qui mi ricollego alla domanda sopra: parlo appunto di quello che conosco, dell’ambiente nel quale sono nato e cresciuto, della sua quotidianità, dei suoi pregi e dei suoi difetti, il tutto attenendomi ai principi della cultura hip hop e usando il suo linguaggio. È ‘keeping it real’ nel senso più stretto, così come mi è stato insegnato da chi ha diffuso questa cultura nel mio paese prima di me. Io sono ‘vero’, racconto quello che vedo, vivo e conosco, senza scopiazzare nessuno e senza parafrasare goffamente l’estetica di un ghetto nel quale non ho mai vissuto (e che pochi, per non dire nessuno, hanno mai vissuto in tutta Italia, giusto per essere chiari).
Il discorso dell’emigrazione è poi la naturale conseguenza di ciò: essere migranti è nel DNA dei friulani, lo sono stati i nostri nonni prima di noi e la mia generazione sta solo replicando una storia già vista. E quindi ne parlo perché lo vivo sulla mia pelle, vedo ogni anno decine di compaesani lasciarsi il paese alle spalle e, nel momento in cui la cosa mi ha toccato nel vivo (cioè quando ho dovuto staccarmi da amici molto stretti che hanno scelto la strada dell’emigrazione), ho scritto brani come “Zenit” e “Ferragosto” che ne parlano esplicitamente, anche se da due punti di vista differenti.

Le tue sonorità si arricchiscono di pop ed elettronica, con chitarre rock e fiati dub.  C’è qualche artista di oltre confine che ti ha influenzato in tal senso?
Ce ne sono moltissimi, in particolare alcune realtà europee che mi hanno segnato particolarmente. Senza voler fare nomi a tutti i costi, direi che il modo in cui in Inghilterra hanno fatto propria la cultura hip hop è stato uno dei motori della mia ispirazione. Il mercato UK è un motore trainante della discografia globale. Gli inglesi danno il via ai trend prima che il resto del globo se ne accorga: vedi l’esempio del grime che ora sta tornando in auge perché, dopo 15 anni che esiste, Kanye West se ne è accorto e si è portato Skepta sul palco. Ci sono artisti hip hop nel Regno Unito che hanno sfornato dischi incredibili, mescolando tra loro i generi più disparati e creando un suono tutto loro. I puristi del genere lo definiscono ‘pop’ ma dal mio punto di vista è solo un modo per rendere personale qualcosa che non hai inventato tu. È di arte che parliamo in fin dei conti, giusto? E mica ci si può limitare a ricalcare la stessa formula inventata 20 anni fa! Bisognerà aggiungere qualche ingrediente nuovo alla ricetta, non ti pare?

Sei molto legato alla tua terra di origine? Le lingue che usi nei tuoi brani sono italiano, inglese e friuliano…
Sì, il plurilinguismo è stata una scelta naturale profondamente legata al posto dal quale provengo. In Friuli parliamo una vera e propria lingua, il friulano appunto, che caratterizza la mia terra e fa parte della quotidianità dei suoi abitanti: è una lingua viva che si parla al mercato, in radio, in rete. Ovunque. L’utilizzo dell’inglese invece è intimamente legato al tema dell’emigrazione: a cantare in inglese sul mio disco sono infatti dei friulani emigrati che, dovendo collaborare con un artista friulano come loro, decidono di utilizzare la lingua del paese in cui vivono ora. È successo sia con Mattia di Delta club sia con Filippo dei Videodreams, due artisti di Tolmezzo come me che ora vivono (e suonano) in quella stessa Inghilterra che così tanto mi ha ispirato. È una sorta di cerchio che si chiude, una di quelle curiose coincidenze che ti fanno capire che ti stai muovendo nella direzione giusta.

Hai nuovi progetti a breve termine?
Attualmente no. Vorrei portare i brani del mio disco dal vivo in giro per l’Italia e al momento sto organizzando un promo tour per la prossima primavera/estate. Il live set comprende un batterista (Elvis Fior) e due polistrumentisti che suonano basso e percussioni (Giacomo Santini) e synth e chitarra (Marco Badini). E poi c’è sempre il buon Davare che, oltre ad aver prodotto il mio disco nella sua (quasi) interezza, ci dà una mano con i suoni e con gli arrangiamenti. Lo sto testando proprio in questi giorni, la prima data è stata a Trieste lo scorso 5 febbraio, e devo dire che il risultato mi soddisfa non poco!

About the author

Annalisa Nicastro

Mi riconosco molto nella definizione di “anarchica disciplinata” che qualcuno mi ha suggerito, un’anarchica disciplinata che crede nel valore delle parole. Credo, sempre e ancora, che un pezzetto di carta possa creare effettivamente un (nuovo) Mondo. Tra le esperienze lavorative che porterò sempre con me ci sono il mio lavoro di corrispondente per l’ANSA di Berlino e le mie collaborazioni con Leggere: Tutti e Ulisse di Alitalia.
Mi piacciono le piccole cose e le persone che fanno queste piccole cose con amore e passione. E in ultimo vorrei dire che mica sono matta, ma solo pazza. Pazza di gioia.

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