Interviste

Domenico Iannacone

Scritto da Edo Follino

Spero di conservare l’ostinazione necessaria per scavare più in profondità, per ascoltare oltre le parole, per captare l’essenza delle persone. E di non raffreddare la mia curiosità, di vivere ogni giorno seguendo i miei ideali, senza avere mai la tentazione di rinnegarli

Intervista di Edo Follino
Foto di Stefano Ciccarelli

La metrica dell’anima ha le sue regole e solo pochi sembrano conoscerle tutte, quattro chiacchiere con
Domenico Iannacone in un soleggiato giorno di ottobre a Roma

Ciao Domenico…Televisione, radio e ora anche il teatro, cercare e trovare l’emozione per te è sempre la stessa cosa?
Diciamo che è una ricerca che mi permette di rimanere vivo e costantemente in evoluzione. Nel mio lavoro, credo che non si possa restare gli stessi per sempre, quello che si racconta entra nella propria vita, ti porta altrove e cambia inevitabilmente le prospettive. Se così non fosse, significherebbe che il nostro animo è freddo e noi non all’altezza non saremo capaci di guardare il mondo con profondità.

Il tuo “Che ci faccio qui” in scena a teatro è una riscossa civile, quanto conta oggi questo tipo di narrazione nella società odierna?
Credo che il teatro civile mi completi e mi aiuti a scoprire una triplice dimensione: anima, corpo e parola. In televisione, questi tre elementi non si manifestano pienamente e simultaneamente, ma interagiscono solo in momenti e luoghi distinti. Nel teatro, invece, si fondono in un’unica dimensione scenica ed emotiva. Sullo schermo, per motivi narrativi e per non sottrarre spazio ai protagonisti delle storie, ho scelto di limitare l’uso della parola. Una scelta consapevole di riduzione che limita inevitabilmente le mie capacità espressive.
Nel teatro, come per magia, tutto si ricompone, dando centralità non solo al corpo e alla parola, ma anche alla mia anima.

Una volta qualcuno ha definito la tua televisione essere una TV a km zero perché azzerava le distanze adesso che fai teatro quanto riesci a sentire il contatto con il pubblico?
Nella mia vita ho sempre cercato di azzerare le distanze. Questa esigenza l’avverto ora anche in misura maggiore, visto il ‘forzato allontanamento’ dalla televisione. Poter tornare dal vivo a sentire le mie emozioni e quelle di chi mi sta di fronte, è un modo per continuare a raccontare ed è anche una specie di risarcimento per questo esilio.

L’umanità che lavora in silenzio e lontano dai riflettori ha sempre avuto un ruolo centrale nelle tue narrazioni. Come incorpori tutto ciò nel tuo spettacolo teatrale?
La magia di “Che ci faccio qui in scena” risiede nella sua flessibilità: il testo si adatta al contesto in cui viene rappresentato. La varietà delle storie e la decisione su cosa raccontare in un determinato momento e luogo rendono ogni rappresentazione un’esperienza quasi sempre inedita e sorprendente. Mi ritrovo spesso a modificare l’ordine dello spettacolo, inserendo alla fine sequenze di lavori televisivi che inizialmente non avevo considerato. Questa scelta nasce da un impulso genuino e istintivo, che in fondo rispecchia il mio approccio professionale, non predispongo mai le domande in anticipo e non predetermino il percorso che farò. Al teatro succede la stessa cosa mi preme semplicemente guardare gli altri negli occhi, lasciando che la liturgia dell’incontro si sviluppi spontaneamente e trovi la sua direzione.

Domenico tu hai vinto tantissimi premi importanti anche internazionali, quanto pensi che conti l’aspetto meritocratico in questo paese
La meritocrazia non è una virtù di questo Paese, e non mi riferisco solo al mio settore. Lo noto in ogni campo esiste un meccanismo che non premia chi realmente ha meriti e credo che questo ci impedisca, come nazione, di progredire come dovremmo. Ci vantiamo di avere le migliori eccellenze, però i giovani sono costretti ad andarsene via. Io ho una figlia 18enne che studia negli Stati Uniti. Inizialmente ero critico sulla sua scelta, invogliandola spesso a tornare per continuare gli studi qui.
Poi ho dovuto ammettere che in fondo ha ragione lei, i giovani in Italia non hanno possibilità di esprimersi appieno e pertanto devono cercare opportunità altrove. Mi viene spesso in mente la sequenza tratta da “La meglio gioventù”, il film di Marco Tullio Giordana quando Il professore dice allo studente interpretato da Luigi Lo Cascio durante l’esame universitario: “Se ne vada dall’Italia. Lasci l’Italia finché è in tempo. Cosa vuole fare, il chirurgo? …Qualsiasi cosa decida, vada a studiare a Londra, a Parigi… Vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L’Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire. Lo studente risponde: “Secondo lei tra poco ci sarà un’apocalisse?”.
Il professore replica: “E magari ci fosse, almeno saremmo tutti costretti a ricostruire… Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta, vada via…
Lo studente chiede: “E lei, allora, professore, perché rimane?”
Il professore risponde: ”Come perché? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere.”
Secondo il mio punto di vista quella sequenza cinematografica coglie alla perfezione il problema, che continua, malgrado parole di circostanze e proclami politici, a rimanere identico da decenni.

Tutti i personaggi più o meno famosi hanno un pubblico che li segue si può dire che tu hai un popolo che è con te, uno zoccolo duro sempre presente in ogni cosa che fai.
Più che un popolo, preferisco immaginarlo come una comunità. Mentre il popolo rappresenta un’aggregazione su vasta scala e spesso anonima, la comunità evoca un’idea di vicinanza e protezione.

Posso chiederti cos’è la felicità per te?
Quando rifletto sulla felicità, penso a ciò che mi porta equilibrio, a quel senso di calma che non genera scompiglio interno ma pace. Per me, la felicità è strettamente legata alla serenità: mi sento felice quando sono sereno. Credo che questa percezione nasca dal fatto che sono costantemente immerso nelle vicende degli altri e tra gli infiniti alti e bassi della vita. Questa esposizione continua a situazioni e stimoli vari rende, a mio avviso, la felicità un concetto effimero e non facilmente definibile, e forse per questo la vedo come qualcosa di distante da me.

Domenico uomo e Domenico giornalista, spesso il tuo mestiere risucchia chi lo fa nei suoi meccanismi, tu sei rimasto quello di sempre, hai difeso il tuo modo di fare inchiesta, pensi che questo ti abbia in qualche modo ostacolato?
Non ho mai cercato di impormi a tutti i costi, e anche dopo aver ottenuto il riconoscimento del pubblico, sono rimasto la stessa persona. Non ho mai percepito una differenza tra chi sono davanti e dietro la telecamera. Ammiro chi, indipendentemente dal ruolo che ricopre, mantiene un atteggiamento coerente e non erige barriere. Non apprezzo l’arrivismo né la competizione sfrenata nel mondo professionale. Credo fermamente nel valore etico del mio lavoro; per tutto il resto, voglio semplicemente essere me stesso e non mi preoccupo di come gli altri decidono di comportarsi.

Dove ti immagini di essere in un domani dilatato nel tempo?
Mi immagino in un luogo intimo e raccolto, precisamente a Torella del Sannio, in Molise, il paese dove sono nato. Non credo che trascorrerò tutta la mia esistenza in una grande città; sento il bisogno intrinseco di riconnettermi alle mie radici. Ho dato un nome alla mia casa: Itaca. È là che un giorno desidero tornare, ma non con l’intento di isolarmi. Vorrei che diventasse un luogo accogliente, un punto d’incontro dove ognuno che venga a trovarmi possa esprimere liberamente le proprie idee. A Itaca vorrei insegnare ai giovani la bellezza di questo lavoro e a loro vorrei dedicare una parte del mio tempo.

I personaggi delle tue storie ti hanno raccontato le loro esistenze, quanto è stato importante essersi rispecchiato nelle loro vite
Ho sempre avuto l’abitudine di farlo. Ho sempre apprezzato l’uso dell’empatia nel mio racconto televisivo, ma non per una precisa metodologia o per fini utilitaristici. Sono fatto così; interagisco in questo modo con tutti, e quindi non c’è alcuna strategia o messa in scena dietro. Forse il pubblico ha apprezzato il mio lavoro proprio grazie a questo mio approccio. Dopo tutto, un telespettatore attento può discernere se c’è finzione o, peggio ancora, manipolazione in ciò che si propone. In questo mestiere, la responsabilità è duplice: nei confronti del pubblico che ti segue e, ancor più, di chi sceglie di affidarti la propria storia.
Quando qualcuno decide di aprirsi, consegnandoti pezzi della propria vita, si espone, ripone la sua fiducia in te, e tu devi custodirla e non tradirla mai.

Hai raccontato tante storie anche molto pesanti come fai a riporre nella vita di tutti i giorni tutte le
emozioni che ti porti dietro?
Col tempo ho imparato a decomprimermi. All’inizio, dopo ogni racconto duro, mi rimaneva addosso un malessere dettato dalla impossibilità di eliminare i tanti problemi e le ingiustizie di cui ero testimone. Per questo ora mi sono dato una specie di mandato: ogni volta che mi imbatto in situazioni difficili mi impegno, tento di risolverne almeno qualcuna. Una scelta che mi pone nella condizione di incidere, di non essere soltanto spettatore di quella storia drammatica. Non sto lì solo per ascoltare o riportare un fatto, ma cerco, faccio in modo che qualcosa cambi. Ecco questo ha modificato notevolmente l’orizzonte del mio lavoro.

Mi dici perché è importante tornare nei luoghi dove si è già stati?
E’ importante perché la vita non è una fiction televisiva che termina dopo qualche puntata. Con il passare del tempo l’esistenza delle persone cambia forma e condizione. I destini si compiono nel bene e nel male. Accompagnare le storie, prendersele cura è un atto di civiltà e di rispetto verso gli altri. Senza contare che questo permette di comprendere le dinamiche sociali, di osservare se il mondo in tema di diritti è cambiato, se nel frattempo le ingiustizie e le disuguaglianze sono state risolte. Il ruolo della informazione e della tv pubblica in particolare, dovrebbe sempre guardare al bene della collettività anche quando racconta la storia di un solo uomo. In poche parole se non torni dove sei stato per capire cosa nel frattempo è accaduto compi una operazione parziale di verità. Per mia natura sono contro la parzialità della vita.

Ti nomino cinque personaggi mi dici quello che ti porti dietro di loro, De Sica, Pasolini, Zavoli, Gregoretti e Comencini
Di ognuno di loro porto dentro qualcosa. De Sica è stato fondamentale nella mia formazione, il suo cinema mi ha consentito di avvicinarmi con sensibilità alle tematiche di chi soffre, degli ultimi e dei vinti. “Ladri di biciclette”, è senza ombra di dubbio la molla che mi ha spinto a scegliere la mia professione e a raccontare le vite ai margini. Pasolini mi ha condotto all’interno di periferie sofferenti, mi ha permesso di entrare nelle ombre delle vite sempre al limite. Molti dei miei personaggi lì ho riconosciuti proprio in virtù della sua narrazione. Uomini e donne perennemente in bilico tra il bene e il male, tra la vita e la morte: Accattone è uno di questi. Di Zavoli ho apprezzato il rigore, la professionalità e l’alta etica della sua narrazione. “La notte della Repubblica”, il racconto lucido del terrorismo in Italia, è per tutti quelli che aspirano a fare del giornalismo qualcosa da cui non si può prescindere. Di Ugo Gregoretti ho un ricordo, vivo, attraverso una frequentazione diretta. Di lui mi piaceva la leggerezza e l’ironia perché anche questo serve a descrivere il tratto umano. Comencini l’ho amato per l’approccio con cui ha trattato l’infanzia. I bambini lavoratori, le loro case, le loro famiglie, le loro esistenze povere e dignitose al tempo stesso. Oggi, vedendo programmi televisivi in cui l’infanzia sembra artificiale e manipolata, sento la nostalgia dei suoi ragazzi che guardavano in camera con candore.

Qual è l’augurio che Domenico Iannacone si fa oggi?
L’augurio che mi faccio è di essere sempre un canale aperto tra le realtà nascoste e il mondo esterno, di portare alla luce storie che altrimenti resterebbero nell’ombra. Spero di conservare l’ostinazione necessaria per scavare più in profondità, per ascoltare oltre le parole, per captare l’essenza delle persone. E di non raffreddare la mia curiosità, di vivere ogni giorno seguendo i miei ideali, senza avere mai la tentazione di rinnegarli.

About the author

Edo Follino

Ho uno specchio pieno di graffi e polvere dove vedo le mie impronte mischiate alla mia ombra che cercano la strada che fa il giro del mondo senza andare da nessuna parte, sono un uomo in cerca di me stesso e se non sono riuscito a trovarmi fino ad ora non credo ce la farò più, cerco un bisogno da soddisfare per trovare una scusa ai miei istinti, cerco la poesia nelle frasi o nei pensieri e qualche volta riesco anche a trovarla, non posso fermarmi anche se so di essere fermo, sono un cavaliere del nulla che si perde in tutto ciò che non potrà mai essere, in fondo solo un uomo stupido che va rompendo l'anima alla gente, uno che rovista nella paura di ogni dubbio senza trovare nessuna certezza, ho perso da tempo le ali dell'angelo ed ora sono qui davanti al tuo silenzio in cerca di clemenza senza alcuna ipocrisia, ti confesso che odio ciò che non potrò mai essere perché non riesco ad amare ciò che sono, odio il fatto di non riuscire a perdonarmi ed è per questo vorrei che tu fossi diverso, vorrei che tu riuscissi a trovare nel mondo un rifugio dove il tuo cuore di ragazzino possa tornare ad essere innocente, dove una lacrima possa ancora riempire un mare, dove uno sguardo possa illuminare il sole, dove l’amore è solo amore che non chiede, dove potrai riuscire a far mormorare il tuo cuore senza farlo gridare, dove potrai volare nelle vertigini delle tue paure, dove potrai saziarti dei sorrisi e rendere il tuo sogno reale, dove il tuo coraggio possa ancora trasformare la volontà che ti farà resistere alle avversità, un posto dove la tua curiosità possa abbattere ogni ostacolo, dove la tua libertà possa dare voce ad ogni respiro, dove la tua anima possa trovare riparo nell'isola dei giusti...si vorrei tutto questo per te perchè sono convinto che solo allora saprai di essere arrivato a destinazione e solo allora riconoscerai nei mie occhi la follia che ti avrà salvato.

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