Erano i primi anni 90 quando, per la prima volta, ricordo di essermi appassionato a un rock diverso da quello che ero abituato ad ascoltare nella decade precedente. Nel mondo iniziava a spadroneggiare il grunge, che veniva dall’America, da Seattle in particolare, mentre in Inghilterra un altro suono, molto più cupo e legato alla psichedelia stava trovando il suo spazio soprattutto grazie a band come i My Bloody Valentine (con l’album Loveless) e ai Ride (Nowhere), che ebbero un successo anche commerciale. Personalmente ero molto attratto da una band minore, i Curve (provate ad ascoltare Doppleganger), forse per la bravura della loro cantante Toni Halliday, ma per un lungo periodo in verità non me ne sono più interessato. Il nome che la stampa diede a quel movimento è Shoegaze, che deriva dal fatto che i chitarristi e i bassisti facevano un uso massiccio di effetti sonori ed erano spesso rivolti con lo sguardo ai loro piedi, durante i concerti.
Tutta questa lunga premessa per presentare al meglio i Clustersun, primo gruppo italiano che ho il privilegio di recensire, appartenente a questa fronda di appassionati di questo genere “per amanti di chitarre elettriche e tastiere stratificate”.
A beneficio di chi non li conosce, ma avesse voglia di immergersi nel loro affascinante disco intitolato Surfacing to breathe , direi che più che ad un ascolto dovrebbe prepararsi a un viaggio, breve ma molto intenso. E come in tutti i viaggi, spesso ciò che risulta più difficile all’inizio è lasciarsi andare, per la paura di perdere il controllo, ma quando si riesce a farsi guidare dall’onda (in questo caso, sonora) non ci si pente di aver abbandonato per un po’ la comoda spiaggia assolata, dove tutto sembrava pace e serenità.
Le otto tracce si distinguono per il muro del suono che le compone, fatto di riverberi che volutamente avvolgono con la loro ombra la linea melodica. La voce non è quasi mai ben distinta, ma tende a confondersi con gli strumenti che la sommergono, proprio come un surfista che tenta di cavalcare un cavallone gigantesco restando in equilibrio in modo magistrale. E così apparentemente si resta senza fiato, proprio come il titolo dell’album e la sua intrigante copertina in qualche modo suggeriscono, per tutta la durata del disco con un sentimento che alterna momenti duri (la cavalcata Lonely moon) ad altri semplicemente cupi come la strumentale Don’t Let The Weight Of Your Soul Drag You Down e la title track che sembrano usciti da un album dark dei Cure. Ma non temete non c’è il rischio di morire di claustrofobia perché i Clustersun (Marco Chisari, ottimo vocalist e bassista – Mario Lo Faro virtuoso chitarrista – Piergiorgio Campione artefice dei tappeti di tastiere – Andrea Conti alla potente batteria) in qualche modo sapranno regalarvi anche un lieve sprazzo di luce che si intravede nella più radiofonica Emotional Painkiller (quasi New Wave anni 80) per poi ritornare presto nell’oscuro ed elegante finale con la bellissima Event Horizon.
Una volta rientrati a riva, di certo ci sarà di nuovo la calma, ma quel tragitto appena percorso avrà lasciato il segno, potete starne certi. E non è improbabile che vorrete riviverlo per sperimentare di un’altra volta che, in fondo, non c’era proprio nulla di cui aver paura.
PS: Per un assaggio, vi lasciamo volentieri tuffarvi nel suggestivo video del loro singolo Raw Nerve