Arti e Spettacolo Interviste

Cloris Brosca, Intervista

Scritto da Claudia Erba

Cloris Brosca si racconta a SOund36, Improvvisando anche una lectio magistralis sulla semiotica della performance teatrale!

“Non sono una donna addomesticabile”, scriveva Alda Merini. Proprio la necessità di conservare una natura selvaggia, di mantenere integro il cordone ombelicale con le proprie aspirazioni ed introspezioni impedendo l’uccisione del femminino creativo– parafrasando Clarissa Pinkola Estès- è il cuore di “BarbailBlu”, il monologo a più voci che l’attrice napoletana sta portando in scena nei teatri di tutta la penisola.
Dal provino per “Ricomincio da tre” alla lingua di Eduardo e Troisi, passando per le Neapolitan Novels di Elena Ferrante, i vincoli fatali di Sándor Márai e gli eccessi stilistici di Tornatore, Cloris Brosca si racconta a SOund36. Improvvisando anche una lectio magistralis sulla semiotica della performance teatrale!

In “Ricomincio da tre” ha interpretato Rosaria, la sorella di Gaetano/Massimo Troisi. In un’intervista ha raccontato che fu Lello Arena a “provinarla” per quel ruolo. Che ricordi ha di quell’episodio?

Spesso quando si va ai provini succede come alla protagonista di “LA LA LAND” (l’ho rivisto l’altra sera in televisione): sei lì, trattata con un fare distratto, indifferente, che talvolta rasenta la maleducazione. Ricordo invece la piacevolezza del colloquio con Lello Arena: fu molto accogliente forse immedesimandosi nei panni di una persona giovane, alle prime armi, come ero nel 1980 e come anche lui era stato, prima del grande successo del trio “La Smorfia”. Mi ricordo la sua premura nel mettermi a mio agio.

Secondo Reggiani, nel Gaetano di Troisi, “Certe parole di gola in napoletano stretto, accentuato dal suono in diretta, appartengono alla scuola di Eduardo». Lei, che ha lavorato con De Filippo nella commedia in tre atti “Il sindaco del rione Sanità”, è d’accordo?

Ho pensato più di una volta – mi ricordo di averne parlato anche con l’amico Antonello Paliotti, musicologo, musicista e naturale cultore della lingua napoletana – che è difficile capire a volte quanto i grandi, come Eduardo De Filippo, o lo stesso Totò, abbiano mutuato espressioni, suoni, modi, derivati dalla parlata, dalla vita dei napoletani e quanto invece le loro creazioni teatrali e/o cinematografiche (ma anche letterarie: mi riferisco per esempio al modo di costruire le frasi) abbiano influenzato il dialetto nell’uso parlato della vita di tutti i giorni. Può darsi quindi che Massimo Troisi sia stato influenzato dalla lingua di Eduardo, ma può anche darsi che quei tratti simili che ritroviamo in Eduardo e Troisi siano comuni a un modo di sentire tutto napoletano che potremmo trovare anche in tanti napoletani non attori.

Un’imponente ricerca internazionale basata sulla comparazione di 150 romanzi e di 40 autori contemporanei ha cercato di stabilire la reale identità di Elena Ferrante, utilizzando un ampio ventaglio di metodologie che vanno dal distant reading all’analisi delle corrispondenze stilistiche e lessicali fino alle tecniche investigative di profiling.

Lei, che nel 2015 ha portato in scena “Lila e Lenù”- Pagine da L’amica geniale di Elena Ferrante (Edizioni E/O) – che idea si è fatta di questa, quasi ossessiva, ricerca d’una carta d’identità?

Devo dire che sono molto meno interessata ai dati anagrafici di Elena Ferrante che alle sue pagine. Non mi va neanche di definirle splendide: so solo che la vicenda che Elena Ferrante ha narrato ne “L’AMICA GENIALE” è stata per me avvincente, mi è entrata dentro come una storia di famiglia, come se raccontasse di me, della mia vita. In maniera sorprendente la storia di quel romanzo entra in zone profonde di cui spesso non siamo coscienti, attraverso una lingua che, per me, ha dell’incredibile: sembra che non esista distanza fra se stessi, mentre si legge, e la narrazione; eppure si tratta di un racconto ricco di metafore, ma quelle metafore sono così necessarie che non ti accorgi neanche della loro esistenza. La lingua che la Ferrante ha usato mi lascia ammirata: una lingua essenziale eppure ricca, a cui lei chiede le risorse bastanti e necessarie – non di più e non di meno – a raccontare precisamente quello che vuole dire, in modo che quanto descrive arrivi a destinazione. Un altro tratto del libro che mi è caro è che parla dello scrivere. Tutte e due, Lila e Lenù, vogliono diventare scrittrici; Lenù ci riesce, ma sempre avendo come modello Lila, che da un certo punto in poi invece non si esprime più scrivendo e il modello che Lenù continua a seguire diventa sempre più la proiezione che lei stessa, Lenù, fa di Lila. Insomma è un libro così profondo che di certi filoni d’oro contenuti nel romanzo ti accorgi solo leggendo e rileggendo. Credo che Elena Ferrante quando ha scritto questo libro, sia stata, come tutti i grandi artisti, una sorta di medium, un tramite tra la storia magnifica e potente che doveva essere raccontata e il pubblico a cui quella storia era destinata.

Voglio aggiungere solo una cosa: sono così grata ad Elena Ferrante per la bellezza delle cose che scrive (per i suoi lettori, e quindi anche per me) che il minimo che mi sento di fare è ripagare tanta bellezza rispettando il suo desiderio di anonimato, la voglia di non confondere la sua opera con la sua vita privata. D’altro canto Elena Ferrante ha spiegato così bene e in maniera così argomentata, ove mai ce ne fosse bisogno, il perché di questo suo desiderio (si può leggere a questo proposito l’interessantissimo libro “LA FRANTUMAGLIA”) che credo sia veramente difficile non condividere le sue affermazioni. 

”L’eredità di Eszter“, spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Sándor Márai, l’ha vista cimentarsi nel doppio ruolo di regista e attrice. È stato difficile rendere, nella trasposizione teatrale, quella ineluttabilità asfissiante che è nel romanzo, parafrasando Márai, regola invisibile e vincolo fatale?

In realtà io vado fiera proprio dell’idea che mi ha guidato nell’adattamento del romanzo. 

Ero a Ponza in vacanza, ho finito di leggere il libro – bellissimo – e ho avuto una folgorazione: quel romanzo breve poteva diventare uno spettacolo e, senza tradirne la forma di racconto (monologante nel libro), poteva trasformarsi in un racconto a due voci. 

Nel libro è presente, quasi muta, Nunu, la parente, governante, confidente, amica, di Eszter, che, mi sono detta, sicuramente sarà stata partecipe e avrà ricevuto le confidenze di Eszter sulla sua disgraziata storia d’amore: probabilmente avrà ascoltato la storia così tante volte da saperla ormai a memoria, minutamente, scena per scena, e, di ogni scena, ogni passaggio, ogni particolare, ogni parola, ogni intonazione. Ci capita qualcosa di simile quando abbiamo un malessere amoroso: raccontiamo fino allo sfinimento agli amici più cari ogni singolo particolare che riguarda la nostra storia sfortunata. E così mi è venuto in mente quello che poteva avvenire in scena: Eszter racconta – si racconta e ci racconta- la storia del fatale giorno che racchiude il punto cruciale della sua esistenza, aiutata da Nunu. Più precisamente Eszter e Nunu cominciano lo spettacolo raccontandosi, l’una all’altra – come tante volte presumibilmente già hanno fatto – la storia del giorno fatidico (e le premesse per arrivare a quel giorno) ma poi, man mano – entrando nel vivo – Nunu (mi verrebbe da dire caritatevolmente), per dar modo a Eszter di poter ancora una volta ripercorrerela sua sconcertante vicenda, si presta a interpretare gli altri importantissimi personaggi della storia, Lajos ed Eva. 

Conoscevo una sola attrice in grado di poter affrontare un’impresa del genere e cioè interpretare la vecchia e materna Nunu e anche il candido eppur diabolico Lajos: Cristina Liberati. Ed è stata una scommessa vinta. 

Nessuno (sebbene la “trasformazione” avvenga a vista e con l’utilizzo di pochi elementi di costume) è stato distratto dall’espediente che una donna interpreti la parte di Lajos. 

Credo che sia risultato vincente un elemento che è insito nel meccanismo teatrale stesso: l’attore, pur essendo presente in scena, diventa trasparente e lascia intravedere attraverso se stesso il personaggio e, in quel suo essere (in questo caso in maniera inequivocabile) distante dal personaggio che va a rappresentare, maggiormente porta il pubblico a immaginare ciò che manca e ad avvicinarsi il più possibile a ciò che vuole essere raccontato. È, per intendersi, come quando una persona, assiste, mettiamo, a un’incidente automobilistico, a un litigio, o a una qualsiasi scena che l’abbia profondamente toccata: quando ci racconta quell’episodio non farà le vocidei personaggi della vicenda a cui ha assistito come un imitatore, né riprodurrà i movimenti che gli sono rimasti impressi con i virtuosismi di un mimo: si trasformerà solo di quel tanto che è indispensabile per passare, a noi che ascoltiamo, ciò che per lei (o lui) ha importanza nella scena di cui è stato spettatore/spettatrice e noi vedremo in trasparenza, attraverso lui, o lei – nonostante lui o lei, mi verrebbe da aggiungere – ciò che è successo. 

Quando alla fine delle prime repliche dello spettacolo ho chiesto a svariati spettatori il parere rispetto a questa scelta: che cioè Lajos, personaggio centrale della vicenda, fosse portato in scena da una donna (Cristina Liberati, attraverso il diaframma del personaggio di Nunu) ho avuto risposte che mi hanno fatto capire che quella scelta risultava praticamente invisibile, una scelta di secondaria importanza: tutti si sono invece concentrati, com’era auspicabile, sulla vicenda, e ho capito allora che quella maniera di raccontare la storia era stata accettata, ed era risultata efficace come avevo ipotizzato. Per me è stata una soddisfazione enorme. Abbiamo avuto veramente tanti complimenti e riscontri positivi, Cristina ed io, per quello spettacolo: credo che varrebbe proprio la pena di riproporlo.

In tanti la ricordano come la “Zingara” della storica trasmissione di Rai Uno “Luna Park“…

Sì, è stato un personaggio più che indovinato. Il gioco era ben congegnato, gli indovinelli – in rigorosi endecasillabi a rima baciata, composti dagli autori Bruno e Umberto Broccoli (padre e figlio) – aggiungevano un valore non indifferente alla performance. L’invenzione del “personaggio” della “Luna Nera”, poi; il contenuto accattivante degli indovinelli che attingevano al grande serbatoio di saggezza popolare di alcuni dei proverbi italiani più conosciuti; la scelta di affidare la recitazione di quegli indovinelli al personaggio di una zingara, personaggio che ha di per sé, nell’immaginario collettivo, un che di fascinoso e misterioso insieme; l’ambientazione; i costumi; l’impegno da parte mia nel recitare quel personaggio, attribuendogli un’importanza non diversa dai personaggi teatrali o cinematografici che avevo interpretato in precedenza: tutti questi elementi, credo, abbiano contribuito al successo del personaggio e della trasmissione.

Ne “Il camorrista” la scalata criminale del Professore di Vesuviano è affollata di omicidi, mutilazioni, torture. Lo sterminio sembra non avere mai fine, il tipico climax in montage della cinematografia americana pare non arrestarsi mai, conformemente- secondo certa critica,- alla tendenza dei personaggi di Tornatore all’eccesso, alla reiterazione, all’urlo infantile. Lei, che ha lavorato con Giuseppe Tornatore ne Il camorrista (1986) e in Stanno tutti bene (1990) (al fianco di Mastroianni, N.d. R.) che ne pensa?

Penso che Il camorrista sia un film molto duro e penso che Giuseppe Tornatore sia un grande regista con un suo linguaggio e una sua poetica ben precisi, e, se si pensa che Il camorrista è il suo primo film, la maestria e la competenza della sua direzione risultano ancora più sorprendenti.

Attualmente è in giro per l’Italia con lo spettacolo teatrale “BarbailBlu”. Il motivo perraultiano della curiosità punita si carica, nel suo spettacolo, di valenze inedite?

La curiosità… la curiosità punita: e con questa etichetta ce la si cava e si crea l’inghippo che ci impania. 

È vero: leggendo la fiaba, quando Barbablù parte e lascia alla moglie le chiavi del castello concedendogli la visita a tutte le stanze, meno che a una, sei portato come lettore a pensare: che ricchezza, che generosità! Quando poi la giovane moglie disobbedisce, visita la stanza proibita e ci trova l’orrenda macelleria delle precedenti mogli di Barbablù uccise, fatte a pezzi e appese, orrendi simulacri di vite recise, pensi: Ecco, te la sei voluta! 

Succede cioè che siamo portate a non pensare, a non chiederci se il gioco a cui stiamo giocando sia un gioco truccato o meno, usiamo il nostro spirito critico da un certo punto in poi: accettiamo le regole del gioco e decidiamo che – essendo state disattese quelle regole – la persona che le ha disattese (la giovane moglie) sia colpevole. 

Ma, credo, sono le regole stesse a dover essere messe in discussione. 

Chi ha stabilito i luoghi dove posso andare e quali invece mi sono interdetti? Quali sono le stanze che posso e non posso aprire? 

Clarissa Pinkola Estés nel famosissimo e prezioso libro “DONNE CHE CORRONO COI LUPI” fa un’analisi molto interessante della fiaba di Barbablù e leggendola, anni fa, mi venne l’idea di scrivere il mio “monologo a più voci” BARBAilBLÙ, (il nome, un po’ modificato rispetto a quello della fiaba originale, allude alla lingua reinventata che ho usato per scrivere il testo, ricca tra l’altro di sonorità e sapori di napoletano/italiano antico). 

La Estés nella sua analisi propone un punto di vista molto interessante: evidenzia come spesso siamo noi donne – o meglio, una parte dentro di noi – ad assumere il ruolo di carnefice nelle nostre esistenze. Ci capita di svalutarci, di raccontarci che “non siamo in grado di”, (che quel corso di acquarello o quell’altro per diventare sommelier, quel coro, oppure quello sport, così come la conduzione della casa, l’educazione dei figli, quel corso di aggiornamento aziendale… – e chi più ne ha più ne metta – non fanno per noi) riteniamo di non essere in grado di portare avanti i nostri progetti, perché ci sentiamo inette, di non avere le capacità per farlo. 

Non ci permettiamo cioè di aprire la porta della nostra creatività, delle nostre aspirazioni; è proibito: se la apriamo troveremo i cadaveri delle rinunce che abbiamo operato, tagliando via pezzi delle nostre vite che ancora sanguinano per quelle mutilazioni.

Dobbiamo, possiamo, curare questa parte di noi che ci boicotta, che sabota la nostra vita, il nostro valore: a questo punto sarà molto più difficile per l’altro, l’uomo che incontriamo sul nostro cammino, approfittare di noi, controllarci, usarci violenza fisica, o verbale o mentale che sia. 

Nel mio spettacolo, in maniera fiabesca, a volte buffa, la vicenda di Catarina, ragazza ingenua che caparbiamente decide, a dispetto di tutti, di sposare il BARBAilBLÙ, passa di bocca in bocca, fino al fronteggiarsi dei due antagonisti per arrivare alla risolutiva resa dei conti.

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Claudia Erba

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