Giuda! Questa la grave offesa gridata contro Bob Dylan – durante lo storico concerto di Manchester del 17 maggio 1966 – da parte di uno spettatore, evidentemente molto deluso dal suo (ormai ex) idolo. Mi chiedo quale sarebbe stata la reazione di quella stessa persona se, all’epoca, qualcuno gli avesse detto: “Taci, un giorno quest’uomo vincerà il Premio Nobel per la Letteratura!”. Probabilmente sarebbe scoppiata anche una rissa, ma cerchiamo di capire cosa era successo per scatenare tanto livore.
Nell’estate del 1965 il Menestrello di Duluth era entrato in studio per dare una svolta netta alla sua carriera. Un primo passo in quella direzione era già avvenuto con “Another Side Of Bob Dylan” (del ‘64), col quale aveva iniziato a mettere da parte le canzoni di protesta, che avevano caratterizzato i suoi primi album. Poi con lo splendido “Bringing It All Back Home” (all’inizio del ‘65) aveva introdotto a piccole dosi i primi strumenti elettrici, dando così alcuni indizi di quello che stava per succedere. Mancava però ancora la spallata determinante: sostenere musicalmente “le sue poesie” non più solo con la semplicità folk (voce, chitarra acustica, armonica e poco più), ma con qualcosa di molto più corale e soprattutto rumoroso. Insomma una vera rock and roll band. Tutto questo si realizzò a pieno con la pubblicazione del suo sesto disco: “Highway 61 Revisited”. Nove canzoni che hanno effettivamente stravolto la sua vita artistica, ma soprattutto influenzato molte delle generazioni successive di cantautori.
La rivoluzione attuata da Dylan era più ampia e le regole del gioco non erano più le stesse. Ad esempio, un pezzo poteva essere lungo fino a quando non aveva più nulla da dire e la chiusura del suo nuovo disco, con “Desolation Row”, poteva tranquillamente durare più di 11 minuti, senza avere neanche il ritornello. Un fiume in piena di parole e musica. Basta ascoltare poi l’apertura di “Like A Rolling Stone” (ma anche la seguente “Tombstone Blues” e la stessa “Highway 61 Revisited” verso la chiusura del disco) per provare a comprendere quale shock si sia abbattuto sulle schiere di fan che lo avevano considerato letteralmente come un messia e ora vedevano il loro sogno infrangersi, non riuscendo a capire il perché di quel repentino cambiamento non richiesto. Eppure quell’episodio stupendo – che arrivò comunque secondo in classifica a discapito dei suoi 6 minuti – non rappresenta solo un brano rivoluzionario per quanto detto sino ad ora. È come un faro che illumina il futuro, anticipando decenni di musica a venire e il cui testo racchiude proprio tutta la frustrazione dell’artista nel dover portare il peso della sua notorietà e delle aspettative della gente. La musica che era costretto a suonare non era più la sua casa (“How does it feel to be without a home, like a complete unknown, like a rolling stone?”, canta a squarcia gola). Non voleva più suonare quello che gli altri volevano sentire da lui.
Già nelle prime uscite live col nuovo materiale, al Festival folk di Newport, si erano sentiti i primi mugugni, tali addirittura da spingerlo alle lacrime, ma la sua determinazione era inarrestabile. E tanto è vero che, finita questa prova discografica, non fece affatto un passo indietro dando alle stampe nel maggio del 1966 un altro capolavoro elettrico come “Blonde On Blonde”.
Quel grido citato all’inizio, che gli dava del traditore, era solo la punta dell’iceberg di un mal contento più generale, ma oramai la svolta c’era stata e la sua libertà creativa era riacquistata per sempre. Dylan si limitò a rispondere con fermezza a quel ragazzo nascosto nella folla: “Non ti credo…Sei un bugiardo”, ma poi – a quanto racconta Chris Lee, un fan che era lì presente – con le labbra lontane dal microfono si rivolse alla sua Band (quella con la B maiuscola, capitanata da Robbie Robertson) e disse “Suonate fortissimo, cazzo!”. Fu preso alla lettera e il pezzo da eseguire era, guarda caso, proprio l’intramontabile “Like A Rolling Stone”. Quando si dice: le coincidenze della vita.
Bob Dylan – Highway 61 Revisited
Omaggio a Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, all’indomani del suo prestigioso premio Nobel alla Letteratura: la recensione di “Highway 61 Revisited”, il suo disco più celebre di sempre