Recensioni

Baroness – Stone

Un album disseminato da spiragli di luce, nonostante ci sia sempre una certa cupezza di fondo

La prima cosa che irrimediabilmente colpisce quando esce un nuovo lavoro dei Baroness è senza dubbio la copertina, ennesima opera d’arte realizzata dal leader della band John Dyer Baizley. Musicalmente, invece, Stone registra una fruibilità più marcata, un po’ come era stato per Purple nel 2015, rendendolo masticabile anche a chi non è esattamente un cultore dello sludge metal.
“Last Word”, introdotta dall’acustica “Embers”, ricca di echi che rimandano ad un folklore malinconico, emana un senso di pace interrotto dal riff ossessivo della chitarra di Gina Gleason, sempre più colonna portante del progetto, nonostante sia solo alla sua seconda prova in studio, dopo Gold & Grey di quattro anni fa.
“Beneath The Rose”, aperta dal drumming preciso ed efficace di Sebastian Thomson, e “Choir” mostrano uno spiccato lato psichedelico dal punto di vista prettamente strumentale, mentre la voce si avventura in un’inedita veste: quella del narratore che parla all’ascoltatore, mettendo in un angolo l’aspetto puramente canoro.
Dopo un nuovo interludio (“The Dirge”), con la potente “Anodyne” il paragone con i Mastodon diventa quasi doveroso, richiamati dalle tinte metalliche delle chitarre che tengono sotto scacco l’intera composizione. Con “Shine” non si perde per strada la componente heavy, si tende solo ad ammorbidirla un po’ usando una melodia dosata con dovizia.
In questa parte del disco le pause stanno a zero e “Magnolia” ci rapisce dentro la sua spirale inizialmente arpeggiata, che poi entra ingiustificatamente a gamba tesa, cospargendo di sale le ferite provocate dalle precedenti due tracce. La conclusiva “Bloom”, con il suo sapore vagamente anni 70, mette fine a un album disseminato da spiragli di luce, nonostante ci sia sempre una certa cupezza di fondo. Nell’usare questo binomio c’è da riconoscere che i Baroness sono degli autentici mostri.

Baroness

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Giovanni Panebianco

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