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50 pagine al giorno- I titoli di coda di una vita insieme di Diego De Silva

Scritto da Giulia Carlucci

“Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che prima o poi l’avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d’un colpo”. Alessandro Baricco

“Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che prima o poi l’avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d’un colpo”. Alessandro Baricco

Fosco e Alice si sono amati tanto e per un tempo lunghissimo, ma ora devono dirsi addio. Non sanno perché, non c’ è stata deflagrazione. Non c’è stato nulla di scatenante. “Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c’è. “ Il loro amore si è semplicemente prosciugato. Un viaggio arrivato al termine. Un sentimento che ritrova proprio nella fine tutta la sua universale unicità. È proprio quella fine ci viene raccontata: con determinazione, dolore e un pizzico di ironia.

“Alice e io ci vogliamo bene. Per questo ci stiamo lasciando. Lo so, è un paradosso, ma è così che finiscono i matrimoni. Per quanto illogico sembri, sono i difetti che tengono in vita le coppie”.

Ai rispettivi avvocati affidano le parole che non sanno dirsi. Quei punti che non sanno mettere. Perché gli approcci sono estremamente diversi. “L’amore non è una storia, ma due”. Da una parte Alice spinge verso un finale drammatico, come se la grandezza di un amore potesse misurarsi sul dolore delle ferite inflitte dalla sua fine. Cerca il conflitto, l’enfasi, il dramma. Dall’altra Fosco accetta quasi passivamente ogni condizione che gli viene posta. I documenti legali non dicono nulla di ciò che realmente è stato tra di loro. Almeno su questo entrambi sono d’accordo. Non parlano della vita insieme, non riassumono gioia e dolore.

È tutto freddo e troppo semplicistico. Quanto è avvilente che la fine di un sentimento sia dettata da una sentenza del tribunale. Una sentenza in cui i giudicati sono in realtà gli unici a poter giudicare, perché solo loro sanno quanta sofferenza li ha portati fino a lì. Per questo decidono di ritirarsi in una casa in campagna, a scrivere insieme il ricorso per la separazione consensuale. Per trovare le parole giuste. Parole che parlino di come si sono amati, di cosa hanno realizzato insieme, di cosa hanno condiviso e di cosa hanno sbagliato. Fosco e Alice cercano nel passato e in quei fantasmi qualcosa in grado di esaurire la sofferenza. Per dipanare la matassa di emozioni che li aggroviglia e imprigiona. Per ritrovare la forza di scrivere ancora una volta insieme la parola fine.

De Silva ci narra tutto in modo normale, con il suo stile diretto e in alcuni momenti spietato. È come se questo autore sapesse sempre raccontare il modo esatto in cui viviamo. Senza arrivare a vette emotive irraggiungibili o cadute vertiginose, ma semplicemente la quotidianità fatta di giorni buoni e giorni meno buoni. In questo momento nel mondo milioni di persone si dichiarano amore e lo fanno in un modo o con parole delle quali rivendicano l’unicità, ma non è solo la nascita del sentimento ad esserlo. Tristemente unica è e sarà sempre anche la fine dello stesso. Gesti, tic, pause. Sguardi e litigi, abbracci notturni e porte sbattute.

La punteggiatura del racconto di vita di una coppia. Fosco e Alice sono al capolinea. Ora devono solo trovare le parole giuste per dirselo. Se poi queste parole esistessero davvero. Due voci che si alternano nei capitoli, come fosse dialogo immaginario cui destinatario è il lettore, che si sente perfettamente calato nel ruolo. Sono in un limbo. Alle loro spalle una vita a due salda, fatta di condivisione nel bene e nel male. Forse più nel male ultimamente, ma comunque impegnati nel darsi l’uno all’altra, nel condividere ogni cosa rendendosi partecipi della vita. Perché questo è ciò che muove una vita insieme ci dice De Silva.

“L’amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non ci informa quando si ammala. Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra. Ma non siamo all’altezza di questa responsabilità, anche se in buona fede affermiamo di assumercela. Allora, molto semplicemente, non facciamo nulla. Ci affidiamo al silenzio. Gli diamo il compito di sfinirci e di logorare la convivenza finché uno dei due non s’incarica di ufficializzare la fine, e le dà vita, la annuncia, propone tempi e modalità”.

Ogni parola ci spinge nel viaggio di due vite che si separano. Come una corda i cui fili fanno inizialmente fatica a slegarsi, ma poi si sfilacciano rapidamente. Piccoli avvenimenti che portano alla sparizione di quel noi costruito nel tempo. Una lenta e ineluttabile frana di progetti passati e sogni futuri. Silenzi che disintegrano.

“La verità è che non c’è senso nella fine di un amore. Come nell’inizio, del resto. All’udienza reggeremo il gioco. Ci fingeremo insensibili, indifferenti allo scempio che la legge farà dell’amore che ci ha fatto incontrare e poi è sparito dalla nostra vita senza un saluto. Non si offenda se parlo male della legge. Ne ho rispetto, mi creda. Ma la legge, e soprattutto la giustizia, non c’entrano niente con l’amore. L’amore non è giusto, e non sopporta le regole. È per questo che ci rende felici”.

E capiamo perfettamente che ogni sofferenza lascia un segno, ma che il dolore si supera. Non si accantona. Il dolore -soprattutto questo- non dobbiamo avere la presunzione di capirlo però. È fatto per essere vissuto, per essere attraversato anche senza comprensione. Come un tunnel con una fortissima carica emotiva, difficile da percorrere inizialmente finché non capiamo che è necessario accogliere quelle emozioni, seppur a volte tremendamente dolorose. Accettare l’emozione e viverla ci protegge dalla caduta nel baratro. Perché proprio quella fine è necessaria alla nascita di qualcosa di nuovo. Da quel tunnel usciamo cambiati, spesso rinati. Non è la perdita di qualcosa che ormai non abbiamo più, ma solo una scoperta o una riscoperta di noi. Non lasciarsi travolgere dalla rabbia e dalla delusione, o ancor peggio dalla disperazione che non fanno altro che allontanarci dalla possibile ripartenza. Ci immobilizzano nel punto di rottura, impedendoci di progredire.

Una storia ordinaria di coppia, che diventa tramite per una riflessione sui sentimenti, la fragilità e le psicologie che regolano una relazione e la fine della stessa. La scrittura è come sempre precisa e raffinata. Il racconto ricco di dettagli riesce a non esserne mai appesantito. Non c’è spazio per sciocchi sentimentalismi, c’è posto solo per la sincerità più vera e disarmante. Toccante. La malinconia si alterna ai momenti ironici che non tolgono gravità alla narrazione ma la rendono oltremodo autentica. Reale e umana. Il ritmo intimo della narrazione. Il peso di quelle parole che segnano i titoli di coda e danno il vero ultimo senso a un’intera vita insieme.

“E la morale della storia è che uno non ricorda cos’è successo. Quello che ricorda diventa quello che è successo. E la seconda morale della storia, se una storia può avere più di una morale, è che i Mollatori, di per se stessi, non sono peggiori dei Mollati: una rottura non si subisce mai. La si costruisce in due”. John Green

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Giulia Carlucci

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