Artista visionaria e pioniera della Liquid Dubstep, Veronica Vitale sta impressionando positivamente la critica mondiale con il suo ultimo disco uscito lo scorso 9 Novembre, Inside The Outsider. Cosa vuol dire adoperare un linguaggio liquido o cosa si nasconde dietro la definizione outsider, termine che lei usa su sé stessa, ce lo siamo fatti spiegare in questa dettagliata intervista.
E’ da poco uscito il tuo nuovo lavoro: ci vuoi tracciare le differenze sostanziali con il precedente Nel Mio Bosco Reale?
Ti dico che già partendo dalla ricerca dei suoni si nota una differenza marcata: Nel Mio Bosco Reale è stato prodotto in Germania, questo, invece, tra Seattle e Cincinnati. Si evince una nota di personalità maggiore, data dal fatto che, contrariamente al primo, stavolta ho potuto seguire tutti gli arrangiamenti e tutte le fasi di produzione in prima persona. Infatti, come dico sempre, conosco anche il più piccolo algoritmo di questo album.
Ci sono svariate collaborazioni presenti nel disco: con che criterio è avvenuta la selezione degli ospiti?
I nomi degli artisti presenti in realtà vanno a determinare il mio gusto musicale, mentre la loro partecipazione va a determinare quello che pensano di me. Tutti coloro che ho selezionato sono amici stretti, alcuni già dal 2002 come Bootsy Collins, star del Funk americano. Ho voluto queste persone perché Inside The Outsider significa dentro colui che pensa fuori dagli schemi, infatti tutti gli artisti coinvolti hanno fatto di tutto per uscire dai propri schemi, altrimenti non avremmo potuto collaborare, visto che siamo mondi estremamente lontani.
Cosa intendi con la definizione linguaggio liquido?
Vedo il linguaggio liquido in questo modo: innanzitutto è ispirato a un concetto di Zygmunt Bauman, quando lui parla di “modernità liquida”, ovvero una società che richiede una sensibilità totale per capire gli altri e per aprirsi al Mondo. Ho applicato questo modo di pensare alla musica immaginando tutti i generi musicali come se fossero due fluidi che si uniscono e confluiscono uno dentro l’altro, creando un ambiente liquido, dove non c’è l’estremizzazione totale del proprio genere, ma ci si apre agli altri. Così, ad esempio, il Pop può convivere tranquillamente con il Rap, con il Funk, ma anche con il Jazz, con l’opera lirica e così via.
Questo lavoro arriva a sei anni dal precedente: questo lasso di tempo ampio è stato necessario per trasporre tutte le esperienze accumulate dal 2012 ad oggi?
Diciamo che Inside The Outsider è arrivato nel momento in cui ho compreso che stava cambiando qualcosa nella mia persona, anche perché la produzione è nata prima dentro di me e poi in sala d’incisione. E’ stato necessario questo tempo perché, come artista indipendente, volevo portare in Italia qualcosa che fosse all’altezza delle aspettative dei miei sogni. Il viaggio negli Stati Uniti è stato essenziale in questo senso, mi ha aiutata a capire non solo la musica, ma anche me stessa.
Perché hai scelto questo titolo per l’album?
Ci sono due termini importanti nel titolo: il primo è “inside”, entrare dentro, questo perché credo che tutti noi portiamo addosso un guscio ed è fondamentale, per essere liberi, uscire da esso. Una volta raggiunta la libertà si è finalmente felici. Il secondo è “outsider”, ovvero l’emarginato, colui che non è favorito, ed è una parola che mi appartiene, in tutti i suoi significati.
E’ un progetto da te definito di “matrice futurista”: a tal proposito, come immagini il tuo futuro?
Io lo vedo felice tanto quanto, sulla mia strada, ci saranno esperienze dolorose, perché la vita comincia quando ci si rende conto che portiamo una croce e se tentiamo di sfuggire alle nostre sofferenze non arriveremo mai a raggiungere veramente la nostra serenità. Credo che entrambe le cose vadano di pari passo. Spero che la mia vita sia sempre così: un insieme di circostanze e coincidenze felici, ma anche dolorose, perché queste sono basilari per ricordarmi che sono viva.