Interviste Recensioni

Sabrina Napoleone, Intervista e Recensione di Modir Min

Scritto da Claudia Erba

Modir Min vede la Napoleone in veste di officiante di una liturgia laica in cui la musica si fa atto empatico e sociale, preghiera e bestemmia.

 

E’ uscito il 5 dicembre per Orange Home Records, Modir Min di Sabrina Napoleone, che segue La Parte Migliore (Orange Home Records – 2014) ponendosi con quest’ultimo in una ideale linea di continuità.
Dalle atmosfere oscure della title-track Modir Minrivisitazione in chiave post-punk/gothic rock della filastrocca tradizionale islandese con reminiscenze dei Bauhaus- alla baustelliana L’oro (che nel contrasto timbrico delle due voci sembra richiamare anche gli Scisma di Paolo Benvegnù e di Sara Mazo), passando per la sperimentazione melodica di Nel giorno di Natalenella quale ad un incipit di fiati barocchi fa seguito un’evoluzione più ambiziosa e complessa, nel segno dell’art rock- Modir Min convoglia in un tessuto sonoro eterogeneo, legandoli a filo doppio, spleen esistenzialista ed etica della rivolta.
Quello di Sabrina Napoleone è un avanguardismo che non fa tabula rasa del passato, ma che riprende e rielabora codici stilistici consolidati: penso al gusto eighties di Creatura di rabbia, che sembra rivisitare la new wave di Garbo, a Resilienza, che ci riporta alla migliori collaborazioni Alice /Battiato, sorretta da una chitarra alla Blixa Bargeld (Einstürzende Neubauten, Nick Cave and the Bad Seeds). Il citazionismo di cui l’album è intriso non è glorificazione afinalistica della citazione o ideologia disincantata, in senso postmoderno, ma creazione di qualcosa di nuovo, che non smarrisce il rigore filologico ma ne fa la base di partenza per la costruzione di dicotomie ricercate tra forma-canzone e arrangiamenti che sembrano andare in senso opposto, giustapposizioni, campionature, estratti dalla musica popolare e dalla cultura c.d alta. Si ascoltino la profonda Resilienza, abstract concettuale dell’intero album; La ballata della moda di Tenco, che diventa una taranta ska, la robotica Elective Test, che sembra rimandare alle sperimentazioni di A Ghost is Born degli Wilco.
Synth, elettronica siderale ed un’ effettistica vocale mai fine a se stessa impreziosiscono un lavoro che alterna tagliente ironia (come ne Il business dei primati, con la partecipazione di Max Manfredi, Cristina Nico, Valentina Amandolese e Serena Abrami) e monumentale solennità. Solo spazio chiude un album difficile, che vede la Napoleone in veste di officiante di una liturgia laica in cui la musica si fa atto empatico e sociale, preghiera e bestemmia.

Il ventennio 1957-77-dal gruppo Cantacronache fino agli Stormy Six– è stato il periodo di massima fioritura della canzone di protesta in Italia.Lei è stata protagonista dello show tributo a Patti Smith, Night at Chelsea Hotel. In un’intervista la sacerdotessa maudit del rock ha dichiarato che le canzoni di protesta possono però ancora ispirare: nel mondo attuale le persone devono agire, protestare, scendendo in piazza o organizzando dei boicottaggi. Secondo lei c’è ancora spazio attualmente per un topical songwriting “puro”?
Ritengo che la canzone di protesta sia un fenomeno assai ben radicato, addirittura abituale, ancora oggi. Certamente dobbiamo essere disposti a cercarla, e capaci di riconoscerla, attraverso una notevole varietà stilistica e formale. Il viaggio ci porterà lontano, almeno dalla canzone popolare sino ad artisti come Caparezza. Concordo in pieno con quanto affermato da Patti Smith. Si è sempre cantato per darsi forza, per superare i propri limiti o le proprie insicurezze. Quando si scende in piazza si canta, e si canta insieme.

In È primavera (La parte migliore, Orange Home Records,2014) -che include il ritornello di Mattinata Fiorentina di Rabagliati- affronta la tematica di una pericolosa scotomizzazione della colpa. Chacun de vous est concerné, per dirla con Dominique Grange?
Tutto l’album La Parte Migliore si sviluppava attorno al concetto di perdita e di privazione e, come ben interpreti tu, nel caso di E’ Primavera la perdita si configura come una rimozione di massa delle responsabilità etiche del mondo occidentale, nei confronti del Medio Oriente e delle primavere arabe. L’incipit di Mattinata Fiorentina si scioglie nel grido del Muezzin. Ho usato l’espressione “mondo occidentale” per necessità di sintesi, ma la ritengo un significante privo di significato. È sempre sorprendente realizzare come siamo disposti a sentirci parte di una collettività quando si parla in senso positivo di progresso, o del raggiungimento di risultati e successi in qualunque campo, insomma quando si parla di meriti. Invece, quando si parla di sfruttamento economico e manipolazione politica, che causano fame, guerre e morti, parafrasando Grange/De Andrè, “ci crediamo assolti”.

Il suo recente lavoro Modir Min (Orange home Records, 2017) contiene un brano intitolato Resilienza, un termine che negli ultimi anni sta sperimentando una popolarità crescente, al limite dell’abuso modaiolo. Secondo Stefano Bartezzaghi la resilienza sembra avviarsi alla carriera di parola-chiave della nostra epoca. Sostenere gli urti senza spezzarsi è una qualità acquisita o un esercizio quotidiano?

E’ il primo brano che ho scritto per Modir Min. E’ una canzone assolutamente intima. Resilienza è un termine tecnico che la psicologia e le scienze sociali hanno preso a prestito dalla fisica (come accade spesso), e che descrive una particolare proprietà, ovvero la capacità dei corpi di recuperare la propria forma dopo traumi distruttivi. Non credo che, quando alcune parole tecniche vengono assorbite dal linguaggio comune, questo di fatto le svuoti della loro capacità descrittiva. Ritengo piuttosto che il linguaggio comune necessiti via via di arricchirsi per non perdere la capacità di descrivere un mondo che appare sempre più complesso, mano a mano che comprendiamo ciò che prima era misterioso ed informe. La resilienza è una qualità innata di alcuni. Chi possiede questa qualità speciale da bambino può perderla in età adulta. Io temo di averla perduta.

Lei sembra avere una predilezione per le filastrocche/ninne nanne anticonvenzionali. Penso a Modir Min, contenuta nell’omonimo disco appena uscito, e all’irriverente Insomnia (La Parte Migliore, Orange Home Records 2014), che sembra riecheggiare la trilussiana Ninna nanna della guerra…

E’ certamente vero. Grazie per averlo notato. Trovo estremamente affascinante questa forma espressiva, sia da un punto di vista metrico che da quello melodico. Ho vissuto in Islanda per un certo periodo e conservo dei ricordi potenti di quella fase della mia vita. Modir Min ì kvì ì kvì è una filastrocca tradizionale islandese legata ad una leggenda che ci racconta una storia nera di povertà, discriminazione sessuale, infanticidio e follia. Si narra che una giovane donna molto povera fosse rimasta incinta al di fuori del matrimonio. Allora quello era un reato punibile con la pena di morte, così la donna avvolse in stracci la bambina appena partorita e la lasciò morire fuori, esposta al freddo. Si narra che, qualche tempo dopo, la donna, mentre mungeva le pecore in compagnia di un’amica, si lamentasse perché non aveva un vestito per andare al ballo della festa del paese, che si sarebbe tenuta a breve. In quel momento, entrambe le donne sentirono la voce di una bambina provenire dall’impiantito della stalla. La voce infantile cantava: “Madre mia nell’ovile, non piangere perché ti darò i miei stracci, i miei stracci per andare al ballo.” La madre perse il senno.

In Modir Min la locuzione madre mia è nel contempo invocazione e imprecazione, si legge nel comunicato stampa di accompagnamento all’album. In Fedeli differenti –allo stesso modoGinevra Di Marco canta Madre mia per quanto tempo ancora Che questo tempo dobbiamo scontare?
Lei sembra condividere con l’ex voce dei C.S.I. e dei P.G.R la concezione della musica come atto sociale ed empatico, a cavallo tra tradizione e contaminazione…o sbaglio?
Non sbaglia. In effetti questo potrebbe essere un mio limite, ma non so vedere la musica in modo differente. Non vi troverei nessun piacere né come autrice né come ascoltatrice se la musica non veicolasse in sé un linguaggio capace raccontare potenzialmente tutte le storie del mondo.

La sperimentazione sonora nel suo canzoniere, che si nutre di campionature, inserti provenienti dalla musica popolare e dalla cultura c.d alta, giustapposizioni, dicotomie ricercate tra la forma canzone e l’arrangiamento, sembra non poter prescindere dallo studio filologico. Ritiene che il citazionismo, nel suo universo musicale, sia funzionale alla creazione di un’avanguardia o si risolva invece, in senso tipicamente postmoderno, in un riuso suggestivo ma-in definitiva- fine a se stesso?
E’ buffo in questi giorni ho sentito più volte, ed in contesti molto diversi, accostare la parola “avanguardia” al mio lavoro, anzi al nostro lavoro, perché qui è necessario che tiri in ballo anche la mia squadra, i miei collaboratori, Giulio Gaietto, Marco Topini, Osvaldo Loi e Raffaele Abbate. Non nascondo che la cosa mi lusinga, ma temo di dovere ammettere che non vi sia un intento volutamente avanguardistico. Parimenti quando utilizzo riferimenti o citazioni (nei testi o nella musica), questi sì volutamente, non vi è mai il desiderio di un citazionismo sterile, orientato alla ricerca di un efficacia meramente estetica. Diciamo che ho sempre piuttosto chiaro in mente quello che voglio esprimere e che cerco di farlo nella maniera che ritengo, in piena onestà intellettuale, più esaustiva.

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Claudia Erba

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