Recensioni

POKER SOUND # 2 DAVID BOWIE

Scritto da Marco Restelli

Nel secondo episodio della nostra nuova rubrica, che ambisce a tracciare sinteticamente la discografia di diversi artisti concentrandosi soprattutto sui quattro album più rappresentativi delle loro diverse epoche, abbiamo scelto un mostro sacro, per molti addirittura il più grande di sempre nella storia del rock.
David Bowie (David Robert Jones), personaggio complesso e dalla personalità variopinta, non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, ma alcuni aspetti fondamentali vale forse la pena metterli nero su bianco. Nessuno più di lui, probabilmente, ha inteso e realizzato la propria carriera e vita come vera e propria opera d’arte. Ha sperimentato sempre, senza mai pubblicare il disco che la gente si attendeva da lui e soprattutto mai uno uguale all’altro. Come tutti, ha avuto alti e bassi, ma il suo impatto e la sua influenza sul panorama musicale degli ultimi quarant’anni è semplicemente pazzesco. Tuttavia, ha anche parallelamente saputo carpire le novità del suo tempo, elaborandole sempre a suo modo, fino all’ultimo giorno di vita. Inutile dire che, quando il 10 gennaio del 2016 ci ha lasciati, David ha creato un vuoto incolmabile umano ed artistico, consegnando di fatto alla leggenda ogni cosa. Un grande filo conduttore unisce il suo percorso: il riferimento ricorrente allo spazio, alle stelle, agli elieni e all’universo come se in fondo si fosse sempre sentito un extraterrestre che, venendo da un altro pianeta, vedeva ogni cosa con occhi diversi.

1972 – THE RISE AND FALL OF ZIGGY THE STARDUST
AND THE SPIDERS FROM MARS: il capolavoro

La carriera di Bowie parte in sordina, con il disco omonimo del 1967 che non sfonda. Molto meglio il secondo Space Oddity (1969) dalle sonorità acustiche e la cui title track resterà per sempre fra le sue canzoni di punta. Segue The man who sold the world (1970) – importante per l’inizio del sodalizio sia con il chitarrista Mick Ronson che con il bassista, nonché suo produttore storico, Tony Visconti – dallo stile decisamente più rock a tratti sperimentale e di non facile accessibilità da parte del grande pubblico. Con Hunky Dory (1971) la qualità generale raggiungerà livelli estetici incredibili, grazie a canzoni eterne come Life on Mars?, ballata letteralmente insuperabile, o la camaleontica Changes, fra gli altri.
Il capolavoro assoluto arriva nel 1972 con il quinto album quando il mago Bowie pesca dal cilindro un concept il cui protagonista, Ziggy Stardust, è una rock star aliena arrivata sulla terra che diventerà il suo alter ego da incarnare in pubblico, ma soprattutto sul palco. Androgino e bisessuale, il personaggio finì per appiccicarglisi addosso, tanto quasi da non riuscire più a distinguere la realtà dalla finzione. Tanti i pezzi notevoli del disco: l’apertura di Five Years fa ancora venire i brividi a distanza di tanti anni, la super hit Starman rappresenta al meglio il primo Bowie ancora oggi, così come la scatenata Suffragette City, la title track e la conclusiva e più acustica Rock n’ roll suicide, col suo crescendo orchestrale memorabile. L’album tratta molti temi come la sessualità, i taboo sociali ma nel secondo lato in particolare si concentra su cosa comporti essere una rock star. Sia musicalmente, sia a livello vocale, il disco è una vera delizia con melodie a volte schizofreniche che hanno contribuito a farne uno dei capisaldi della storia della musica. Alcuni critici individuano addirittura in questo disco le radici di quel movimento che solo qualche anno dopo avrebbe in qualche modo sconvolto il mondo della musica rock: il punk. In questo periodo l’artista inglese è in piena esplosione creativa e incarna a pieno il movimento Glam Rock (teatralità smodata, abbigliamento a dir poco stravagante, ostentazione di una sessualità disinibita e libera) del quale era ormai piena espressione, insieme a Marc Bolan dei T-Rex ed ai quali presto si aggiunsero i Roxy Music, Ian Hunter dei Mott the hoople (ai quali diede l’emblematica All The young dudes e ne produsse l’omonimo LP) e altri meno noti.
Bowie produce dischi oltre oceano del calibro di Transformer di Lou Reed e guarda con ammirazione agli Stooges, co-producendo con Iggy Pop il loro terzo album Raw Power.
Quanto al binomio Bowie/Ziggy, è ancora presente nel successivo Alladin Sane (1973) – sulla cui copertina spicca il suo occhio destro con il fulmine bicolore che resterà una vera e propria icona – mentre, musicalmente, è già più proiettato verso l’America. Nello stesso anno esce anche il suo unico disco tutto di cover Pinups.
Uccidendo teatralmente il suo ormai celebre personaggio Ziggy in un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra (3 luglio 1973), Bowie vola questa volta anche fisicamente a New York cominciando quella fase che i Bowieani chiamano “Plastic soul”. Sfodera Diamond dogs (1974) – di cui tutti conoscono almeno il riff magico di Rebel rebel – che può essere definito come il suo ultimo disco dell’era glam, ormai bella e sepolta, registrato a sua detta sotto gli effetti della cocaina.
Decide quindi di cambiare totalmente immagine e stile con Young Americans (1975) nel quale sostanzialmente rivisita a modo suo, come un novello crooner, il genere nero del Soul. Al disco parteciperà anche un certo John Lennon la cui voce è sullo sfondo di Fame (e della cover di Across the Universe dei Beatles) che sarà il pezzo passe-partout per il mercato discografico americano, il più importante ed ambito del mondo. Prima di tornare in Europa darà spazio ancora alla fantasia reincarnandosi in un nuovo personaggio: il Thin White Duke, da un verso della title track dell’album (1976) Station to station, con solo 5 pezzi nuovi e una cover (la splendida Wild is the wind resa nota da Nina Simone negli anni 60), ma guai a considerarlo un EP di passaggio: è un altro grande album a tutti gli effetti.

1977 – “HEROES”: la mitica trilogia Berlinese

Dopo l’annus horribilis Bowie cerca di allontanarsi dalla cocaina, si trasferisce in Svizzera e mentre sta ancora lavorando sul disco solista di Iggy Pop (the Idiot) inizia parallelamente un sodalizio con il geniale e d estroso Brian Eno, ormai orfano dei Roxy Music. Ne esce un disco di avanguardia e seminale (registrato per la maggior parte in Francia, in un castello), pieno di elettronica e rock mescolati insieme intitolato Low, con pezzi storici come Sound and vision e la visionaria Always crashing in the same car. Le influenze di gruppi emergenti come i tedeschi Kraftwerk sono evidenti.
Nello stesso anno, sempre con Eno e Visconti si installa a Berlino (presso gli Hansa studio, ex sala da ballo della Gestapo, dove terminerà Low) città unica per la sua atmosfera irreale, per la sua ricchezza culturale e ovviamente per quel muro che divide l’Occidente capitalista dall’ Europa dell’Est comunista. Quel muro farà anche da sfondo alla storia della title track del suo successivo disco “Heroes”, considerato da molti il pezzo più bello e significativo della carriera di Bowie e da lui scelta per chiudere il set al Live Aid. Il brano racconta del “sogno romantico” di un amante di poter restare anche per un solo giorno ancora con la propria donna che vive dall’altra parte della città, rischiando la vita (“we can be heroes, just for one day”). Il resto del disco è molto diverso: mentre il lato A presenta pezzi spesso dal suono duro come l’inziale Beauty and the beast o Joe the lion entrambi dominati dalla chitarra affilata di Robert Fripp dei King Crimson, la seconda parte è per 4/5 strumentali (ascoltatevi il sax, suonato dallo stesso Bowie, in Neukoln) e i brani sono decisamente dal mood dark. “Heroes” – che è il lato decadente della trilogia e, nel complesso, non di facile ascolto – si chiude con una canzone enfatica: The secret life of Arabia, scritta insieme a Eno e al chitarrista Carlos Alomar. Sia “Heroes” che Low influenzeranno moltissimi artisti post punk e new wave che si stavano affacciando nel panorama internazionale alla fine degli anni 70 e che apriranno gli anni 80 (Joy Division, Gary Numan, Japan, Ultravox, Human League e tanti altri). Incredibile ma vero: in questo fertilissimo periodo Bowie oltre a lavorare sui suoi due album, lavora in parallelo anche su un altro disco di Iggy Pop (Lust for life): tutti e quattro (compreso il citato The Idiot) usciranno nel 1977.
La trilogia berlinese si conclude con The Lodgers (1979): diverso dai primi due, senza alcuno strumentale, ma non per questo meno sperimentale (ascoltate African night flight), con alcuni brani notevoli come il più radiofonico Boys keep swinging, lo sghembo DJ e la stupenda ballata d’apertura Fantastic voyage.

1983 – LET’S DANCE: Bowie goes disco

La decade successiva di Bowie è all’insegna dei tempi e Scary Monsters (1980) risente del clima musicale che lui stesso aveva contribuito a plasmare. Si tratta di un album più diretto, compatto e meno caotico dei tre precedenti con hit come Ashes to ashes, e altri pezzi importanti come la title track e la ballabile Fashion. Dopo di che per due anni di fatto non pubblica nulla se non la super collaborazione con i Queen: Under Pressure.
In cerca di ispirazione e desideroso di rientrare alla grande Bowie inizia a lavorare col nuovo guru della musica dance/disco americana dell’epoca: Nile Rodgers. Leader degli Chic, chitarrista di talento e produttore ricercato: è la persona giusta per l’ennesima svolta stilistica del Duca Bianco che lo porterà a spaccare le classifiche di tutto il mondo con l’album commercialmente più redditizio della sua carriera: Let’s dance (1983). La title track è la classica canzone radiofonica da impatto immediato che personalmente ricordo, a dodici anni, di aver ascoltato decine e decine di volte al juke-box della spiaggia. In studio compaiono altri personaggi di spicco come Bernard Edwards (anche lui degli Chic) o il blues man Stevie Ray Vaughan – che suona la sua chitarra assolutamente fuori dalla sua comfort zone – per confezionare otto grandissimi pezzi. Sull’album finiscono anche una nuova versione di Cat People (già colonna sonora del film erotico di Paul Shrader) e la splendida China girl (cover di Iggy Pop, presa da the Idiot, e scritta a quattro mani con l’Iguana) il cui suggestivo video su MTV aiutò senza dubbio a trascinare l’album nella ionosfera. Modern Love e Without you poi, rendono il primo lato praticamente perfetto.
Già l’anno seguente Bowie tenta di continuare l’onda lunga del successo pubblicando Tonight (1984) con un singolo apripista pop come Loving the Alien, recuperando Neighborhood Threat da Lust for life (altro disco berlinese di Iggy Pop) e riempiendo di cover il resto del disco (God only knows dei Beach boys). Purtroppo non avrà lo stesso effetto.
Seguono una colonna sonora Labyrinth (1986) e Never let me down (1987) che in realtà vende tante copie, ma è bocciato da molti Bowieani d.o.c. che lo ritengono troppo commerciale per gli standard dell’artista.
Ben sei anni passano prima di vederlo di nuovo in pista (capitolo grunge con i Tin Machine nel periodo 89-91, a parte) con Black tie white noise (1993): ecco l’ennesimo look da dandy di fine secolo, tirato a lucido e soprattutto innamorato della sua meravigliosa Imam. A livello musicale: grandi dosi di elettronica, con l’aiuto ancora di Nile Rogers e dell’amico di vecchia data Mick Ronson, purtroppo per l’ultima volta visto che morirà pochi giorni dopo l’uscita del disco. Nello stesso anno esce anche un album quasi tutto strumentale The Buddha of Suburbia.
Nel nuovo concept sperimentale Outside (1995) Bowie immagina un futuro distopico e richiama Brian Eno alla produzione. Earthling (1997) dimostra ancora una volta che niente poteva passargli inosservato, e certamente non gli stili in voga in quegli anni: il Drum n’bass e l’Industrial alla Nince Inch Nails che filtra come al solito attraverso il suo estro unico. I successivi Hours (1999) – primo album della storia uscito in digitale prima ancora della distribuzione “fisica”, e Heathen (2002) – dal quale emerge la personale presa di coscienza della sua mortalità – sono pieni di belle canzoni come la morbida Thursday’s child e Seven nel primo o Sunday e l’intensa Slip away nel secondo.
Reality (2003) è l’ultimo album prima del suo più lungo arrivederci, che durerà ben dieci anni fino all’uscita a sorpresa del bellissimo The Next Day (2013). Le canzoni e i video come quello di Where are we now? rivivono con nostalgia i tempi di Berlino, forse il periodo più bello della sua vita. Perfino la copertina del disco è la stessa di “Heroes”, ma con la sua faccia coperta da un grande quadrato bianco contenente il titolo del disco e la scritta “Heroes” cancellata da una riga nera. Tutti lo pensavano malato, spento ormai definitivamente, ma Bowie è più vitale che mai e lo dimostra alla grande.

2016 – BLACKSTAR: il colpo di teatro finale

A soli tre anni (considerando il lungo silenzio della decade precedente) da The next day Bowie annuncia già l’uscita di un nuovo disco: Blackstar. L’attesa è grande e i primi due singoli, con relativi video, presentano un suono diverso, decisamente più cupo, inquietante, così come un’immagine enfaticamente spettrale dell’artista. La title track dura più di 9 minuti e il testo angosciante parla di una esecuzione, anche se è pieno di passaggi ermetici, mentre Lazarus è raccontata direttamente da un uomo che sta per morire. Fino al giorno dell’uscita, l’8 gennaio del 2016, tutte le recensioni parlano di un’opera scura e dall’elevato livello artistico, ancora una volta sperimentale. Quello che inevitabilmente sfugge a tutti è che Blackstar rappresenta molto più di questo: è l’ultimo regalo di David al mondo, la coreografia perfetta per il suo addio definitivo. Dopo soli due giorni Bowie infatti ci lascia e paradossalmente la sua morte funge da “raggio di luce” che illumina il mistero su ogni singola canzone: la stella nera di cui parla è lui stesso. Senza che trapelasse alcunché l’album era stato quindi concepito nel periodo di una lunga lotta a un male incurabile, pieno di tristezza e rabbia per dover abbandonare tutto ciò a cui teneva. Il sound particolare di questo magnifico lavoro certamente è dovuto, per la maggior parte, al gruppo di jazzisti newyorkesi recuperati dal Duca Bianco in un minuscolo club del West Village: su tutti Donny McCaslin (sassofonista) e Marc Guiliana alla batteria. I loro stile originale risulterà determinante. Le canzoni sono tutte notevoli, ma credo che Dollar days sia da annoverare fra le ballate malinconiche e struggenti mai scritte da Bowie.

Dopo questa lunga carrellata attraverso l’opera di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi possiamo solo sintetizzare la sua carriera con una sola parola: irripetibile.

Il disco Live immancabile: Stage – 1978 (Doppio LP del periodo berlinese)

La chicca: No Plan (EP) – 2017 (Oltre a Lazarus contiene ben tre pezzi inediti dalle session di Blackstar)

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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