Ammetto con la massima sincerità che prima di ascoltare White Noise, non avevo mai sentito neanche una canzone di Noah Gundersen. Evidentemente, per scrivere questa recensione, ho approfondito la sua storia artistica e con piacevole sorpresa ho scoperto che questo songwriter, di Seattle – dal timbro vocale limpido che, in alcuni passaggi, ricorda un po’ quello di Jeff Buckley – è “sulla piazza” da diversi lustri sia come solista che come parte di un duo “formato famiglia” – The Courage insieme alla sorella – poi temporaneamente accantonato (ultimo disco nel 2010).
Lo stile dei suoi dischi precedenti si è normalmente orientato verso l’Americana/Alt-Country (miscuglio indefinito di rock, folk, blues e country), mentre per questo nuovo progetto la direzione presa presenta anche venature pop elettroniche (ascoltate la lenta ballata Bad Actors o la dilatata Heavy Metals) che contaminano il sound. Messa da parte ogni etichetta, che alla fine lascia il tempo che trova, direi che l’elemento che contraddistingue questo album è il contrasto fra l’estetica delle melodie, spesso rarefatte e incantevoli, con l’energia (“elettrificata” direi) che è pronta ad esplodere da un momento all’altro, pronta a scombussolare il tutto.
Il primo singolo The Sound è un po’l’emblema di questa dicotomia che, anche se non presente all’interno di ogni brano, pervade comunque l’intero lavoro. La canzone è intrigante e si apre con una linea di basso decisa e un ritmo mid-tempo con la splendida voce di Gundersen che entra su uno sfondo di tastiere. A un certo punto l’anima rock esce fuori in un turbine di schitarrate per poi tornare alla calma iniziale e così via, verso un secondo giro. Decisamente interessante.
Fear e Loathing, in un certo senso, ha uno schema simile anche se inizia in maniera più dolce, come uno dei tanti episodi folk dei suoi album precedenti, per poi trasformarsi nel finale in qualcosa di totalmente diverso: prima elettrico e potente, poi elettronico. La mia canzone preferita è After all, che non esce dal medesimo approccio ed è piazzata proprio in apertura, forse proprio perché ideale per fungere da porta bandiera di White Noise. L’anima è quasi dark e riesce ad emozionare progressivamente, ascolto dopo ascolto. Nel finale si distingue senza fatica Dry year – gioiellino totalmente unplugged, à la Damien Rice – con il rumore delle mani che si muovono sulle corde della chitarra acustica ad amplificarne l’aspetto più intimo, insieme ad un rumore di un ruscello in chiusura.
Anche se oggi giorno nessuno può inventare più nulla di nuovo nel mondo delle 7 note, credo che questo artista americano meriti di essere ascoltato per il tentativo di uscire dalla propria nicchia (sempre più intasata dai vari Ryan Adams & C.) e di tentare la via del mainstream, basandosi su una personalità forte che chiunque si avvicinerà alla sua musica non potrà fare a meno di notare.
Scoperta autunnale.