Interviste

Mimmo Paganelli

Scritto da Claudia Erba

Sono una sorta di Giobbe della discografia

In due momenti spaventosi per la mia vita e la mia carriera, quando tutto volgeva al “commerciale“ e io controcorrente, mi intristivo fino a quasi non credere più in me stesso, e lui, solo, ha avuto il coraggio di pubblicare due dischi “impossibili” come “Il cielo capovolto” e “Il lanciatore di coltelli”. Nessuno ci credeva.
La statura di Mimmo sta nelle responsabilità prese di persona, nel suo amore per il “bello”, in qualsiasi forma e per l’in-utile che paradossalmente allora si convertì in due dischi d’oro.
C’è tutto Domenico “Mimmo” Paganelli, in queste parole di Roberto Vecchioni, estrapolate dalla dedica contenuta nella nuova versione rivista e ampliata del libro del discografico, “Volevo lavorare dentro nei dischi”, edito da Dantone.
Il libro, che Paganelli sta presentando in tutta Italia, e con il quale ha fatto tappa anche in Sardegna, nell’ambito della Prima Rassegna D’Arte Il calice D’Oro (della quale sono stata curatrice), ospita inoltre dediche di Vasco Rossi, Guccini, Branduardi ed è il racconto di 50 anni di storia della musica italiana attraverso la sensibilità e la memoria del più longevo direttore artistico della Emi italiana.
Non solo EMI però; ma anche CGD-Messaggerie Musicali, Ricordi, RCA, Panarecord, Peer-Southern.
La Peer- Southern, in particolare, dove mi occupavo di edizioni, e quindi di canzoni, cercando di “piazzarle”, mi ha consentito di fare esperienze in tutta Europa. Il mio rimpianto è non essere andato in America, dove sarei dovuto rimanere per un mese, peccato!
Irresistibilmente gioviale, fluviale nella narrazione, affabulatore nell’accezione positiva del termine, genuinamente fisico nell’approccio, Paganelli accompagna le parole ad una gestualità dirompente e icastica, da buon pugliese.
Del suo cursus honorum – da piccolo contabile a direttore dell’allora Mecca della discografia italiana- parla con spontaneità e con una punta di stupore non affettato.
Mi sono ritrovato a “pascolare” dinosauri come Vasco Rossi, Vecchioni, Branduardi. Sono artisti che hanno aperto un varco, che hanno disegnato una strada, sono capiscuola.
“Una razza di artisti che rischia l’estinzione?”- lo incalzo. Per forza! Sarà il tempo a dircelo, ma non mi sembra che attualmente ci siano artisti di quello spessore, con quella stessa capacità di attraversare le generazioni, di “rimanere”.
Eppure, pur in quello che definisce un momento di transizione, non particolarmente felice, Paganelli ha ancora il coraggio di scommettere sulla musica, quella che non smette di emozionarmi. Ho un feeling particolare con i cantautori, penso a Marco di Noia, cantautore rock elettronico, genialoide sperimentatore insieme a Piero Cassano, e a Patrizia Cirulli, che ha musicato dieci poesie di Eduardo De Filippo. Inoltre ho ripreso a lavorare con Oscar Giammarinaro e gli Statuto, quelli- per intenderci- di “Abbiamo vinto il festival di Sanremo” che proposi ad Oscar unicamente per fare un po’ di casino durante la settimana del Festival, ma senza partecipare alla gara. Alla fine invece ci andammo, con insperato successo.
Non so se sia da annoverare tra i pregi o tra i difetti, ma ho sempre privilegiato la qualità, anche a discapito della commercialità. Non sono mai stato il discografico tipico di Cecchetto, insomma.
Penso sia una cosa che ho imparato anche sul campo.
Quando Branduardi, dopo “Si può fare” ci ha annunciato di voler fare un disco su San Francesco (L’infinitamente piccolo, N.d.R.) è stato straniante, lo ammetto! E invece aveva ragione lui, che è riuscito a fare un tour sold-out in Italia e all’estero con testi ispirati a fonti francescane.
Paganelli è un fiume in piena, impossibile (oltre che delittuoso) non farsi travolgere.
Il mio più grande maestro è stato Guccini, mi ha insegnato che si può brillare anche senza la presenza fisica, solo con le opere. Lui è sempre stato una sorta di one take man, buona la prima insomma. “Se vi piace va bene, sennò non me ne frega un tubo”. Aveva capito che l’emozionalità della prima volta che canti una canzone è irripetibile, che bisogna preservarla anche a costo di chiudere un occhio su qualche sbavatura tecnica. Invece, il personaggio più interessante, tra tutti i cantautori con i quali ho lavorato, è stato senza dubbio Battiato.
Il Nostro ha partecipato infatti alla gestazione di “Povera Patria”, essendo il titolare del progetto “Come un cammello in una grondaia”.
Ma nessuno parla, a torto, dei suoi inizi, che furono prettamente melodici. Poi è arrivata la fase elettronico-sperimentale, ma Battiato aveva conosciuto la ME-LO-DI-A, è importante sottolinearlo.
Dalla mitica telefonata di Guccini, ansioso di cantare ad un Paganelli impegnato alla guida in Liguria, sulla litoranea, l’ultimo parto artistico, con tanto di interruzione della linea dopo tre minuti di ascolto e riproposizione, dall’inizio, dell’esecuzione canora (una grande attestazione di stima e di incondizionata fiducia, a ben vedere) alle mangiate di gamberoni sotto sale con Ivan Graziani vicino a casa mia, passando per la storica cena di festeggiamento della chiusura di “Stupido Hotel” da due milioni di lire, in Inghilterra, con Vasco Rossi.
Le cibarie, consumate in un carissimo ristorante italiano scelto da Vasco, in realtà vennero a costare un milione, l’altro milione lo pagammo di Sassicaia… ma all’azienda andò bene così, il disco era venuto bene!
Ricorda con emozione anche la dolcemente telegrafica “intrusione” di Mina, che passava di lì, mentre il figlio Massimiliano Pani, gli inoltrava un fax: Ciao Mimmo, Mina.
Per non parlare di quando, finito di registrare il duetto con Piero Pelù (Stay with me, N.d.R.), mi disse “Mimmo ti faccio un caffè”, incredibile…Mina che mi fa un caffè! Durante la sessione in studio, poi, bisognava vederla: lei, che aveva già registrato, impartiva indicazioni a Pelù, in atteggiamento da scolaretto devoto. Tra i due, la vera rocker era lei.
Tra l’altro, nel 1996 incise “Volami Nel cuore”, che le avevo proposto anni prima, quando alla Peer Southern mi occupavo di edizioni.
L’anneddotica di Paganelli sorprende per mole, per autenticità, per varietà di registro.
E’ capitato molto spesso che il rapporto con gli artisti non restasse “braccato” in una dimensione puramente lavorativa, ma che si instaurasse un’amicizia, e questi “sconfinamenti” eran forse i momenti più belli.
Ho un bellissimo ricordo della partita Italia- Argentina, durante i Mondiali del 78, vista insieme a Ivan Graziani nel salotto di casa mia, con mia madre-pugliese- che lo ammazzò di cibo.
A proposito di mia madre, sai che non ha mai capito che lavoro facessi? A chi le chiedeva lumi sulla professione rispondeva un generico “boh, lavora coi cantanti”.
Ivan comunque era davvero un amico…da poco, ad Alghero, sono stato invitato all’inaugurazione di un anfiteatro a lui dedicato. Era molto legato alla Sardegna, quando voleva dire qualcosa e non essere capito si esprimeva in algherese.
Paganelli, con la consueta sincerità, non fa mistero neanche di aver dovuto ingoiare dei rospi; il più grosso è forse Niccolò Fabi.
Molto semplicemente, nei suoi confronti ero l’unico bello caldo, bollente direi…ma l’azienda era molto tiepida. Peccato! In lui avevo intravisto doti notevoli: grande sensibilità e intelligenza, soprattutto.
Samuele Bersani invece non è stata una vera e propria sconfitta per la Emi, c’è stato un cavillo tecnico-giudico. Bersani aveva un contratto con la Sony, che se l’è tenuto facendo valere il diritto di prelazione. Poi c’è stato Grignani, e lì forse avrei dovuto picchiare maggiormente i pugni sul tavolo per fargli ottenere il contratto non solo per il singolo ma anche per l’album. Giustamente ci preferì la PolyGram, che offriva garanzie maggiori.

Umanissime delusioni e piccole battute d’arresto-dopo i fasti dell’RCA si ritrovò confinato in un vecchio capannone di periferia, adibito a magazzino della Panarecord- in una scalata vertiginosa al mondo discografico costruita con gigantesca caparbietà, tempismo perfetto, lungimiranza e- si direbbe- una benevola cospirazione del fato, che sembra aver truccato le carte in suo favore, assecondandone la ferrea volontà di penetrare “dentro nei dischi”, in quella stanza dei bottoni che è il nucleo midollare della musica.
Aggiungerei che ho sempre avuto una grande pazienza. Sono una sorta di Giobbe della discografia.
E’ la mia filosofia di vita, quando decido una cosa so aspettare. Inutile fare giri a vuoto, devi fermarti e aspettare che si liberi un parcheggio, perché il parcheggio che cerchi è lì, devi solo saper attendere.

Poi certo, non puoi fare la mattana di aprire un ristorante nel deserto, devi saper annusare l’aria, gli umori circostanti. Non ero figlio di Agnelli, non provenivo da una famiglia particolarmente ricca, mi ha aiutato il saper analizzare il presente, la metamorfosi in atto. Ai bivi della vita bisogna essere pronti, essere in grado di prendere una decisione immediata. Ci si riesce se si seguono le indicazioni su misura che ci vengono fornite dalle pietre miliari che troviamo sul nostro cammino, per citare Redfield.
Io ho sempre analizzato tutto, anche nell’acquisto di una casa…la vedevo in condizioni atmosferiche diverse, ne valutavo l’esposizione al sole e al vento, in maniera accurata.
Sicuramente il senso dell’orientamento è uno dei miei pregi, certo non sono un navigatore elettronico, per carità! Ma ho l’istinto dell’esploratore che sa che dalla parte del muschio c’è sempre il nord, ecco.
Quasi mi scordavo…vuoi scrivere un’ultima cosa, che non sa nessuno?

L’anno in cui Mango fece Sanremo con “Dove vai” il direttore d’orchestra, Bob Rose, indossava il mio smoking.
Chapeau!

Credits foto di copertina Franco Lombardi

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Claudia Erba

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