Sound&Vision

Massimo Zamboni @ Brillante. Nuovo Teatro Lippi

Scritto da Stefania Pucci

I fuochi scoppiano, ci baciamo, siamo sposati da febbraio, io sono disoccupato, lei licenziata, il comunismo è finito, qualcosa inventeremo

I racconti di Massimo Zamboni hanno sempre questo retrogusto amaro. E’ il gusto delle cose perdute, degli ideali sepolti dallo scorrere della vita vera, dei sogni amati e mai risolti. Ma è anche il racconto di un’Italia che non esiste più, di contadini pragmatici, con la tessera del partito in tasca e le mani spellate (“Acqua non ne beveva mai, piuttosto non beveva, Quando il medico gli ha tolto il vino è campato senza bere”), è la storia di Cavriago, di piazza Lenin, è la storia di un busto in bronzo e del suo rocambolesco viaggio durato mezzo secolo prima di approdare in quella “ambientazione (…) perfetta. Un gran muro grigio sullo sfondo, grigia la pavimentazione e i gradini laterali, grigio il basamento e la vasca di cemento”. E’ il racconto di uomini e donne, di voci che si inseguono e si parlano addosso nell’urgenza di dire, raccontare, confessare.
È un uomo che è stato punk prima di tutti noi, che è stato comunista anche quando il comunismo mostrava la corda (fedeli alla linea, d’altronde. Anche quando la linea non c’è). È la sua infinita gentilezza, la capacità di accogliere, l’urgenza e il bisogno di comunicare, il piacere di farlo. È un teatro pieno, è una notte di aprile, sui monti è tornata la neve, ma sa di primavera, di promesse che aspettano solo di essere mantenute, di sogni che vogliono solo essere realizzati.
Racconto nel racconto. Dai miei ricordi di bambina emerge una fotografia. È sfocata, ha i colori sbiaditi delle fotografie che hanno passato anni in un cassetto. È l’immagine di un uomo piccolino, con degli occhiali enormi e un cappotto liso ma ancora elegante. Quell’uomo ha l’espressione assorta, il pugno alzato. È ritratto davanti al Cremlino, in mezzo a una Piazza Rossa innaturalmente vuota. Quell’uomo è (era) Ottorino Calamandrei. Ottavo di undici figli, destinato a morire in fasce, perchè i figli pari di Adelina morivano sempre a pochi giorni dal parto, si intestardisce a sopravvivere e diventa quindi titolare di un nome deciso all’ultimo, che nessuno si aspettava di doverlo veramente chiamare per nome. Partigiano dal giorno di ottobre in cui i tedeschi piombarono nella fattoria del Castello, dove viveva con la famiglia, i fratelli e le loro famiglie, rastrellarono tutti gli uomini e li cacciarono su un treno piombato, direzione Dachau. Partigiano dalla notte in cui un macchinista ignoto aprì la locomotiva e, agli uomini assiepati, assonnati e spaventati, disse “Andate, siamo sui monti” e alla domanda di uno di loro “Ma ti uccideranno?” rispose “Sì. Ma voi vivrete”. Partigiano da allora fino alla fine della guerra, comunista verace e caustico (è entrata nel lessico familiare la sua risposta al prete di campagna, che chiedeva a lui, fabbro di paese, aiuto per riappendere il Cristo di legno alto tre metri che era inaspettatamente sopravvissuto al bombardamento subito dalla chiesta durante la guerra e che aspettava di tornare al suo posto “Porca M@d0nn@ padre, certo che la aiuto” offendendo in un sol colpo le donne, la Chiesa Cattolica e un parroco scioccato). È, quella foto, l’ultima testimonianza rimasta del suo pellegrinaggio a Mosca, anno del Signore 1955. Erano gli anni di Chruščëv, gli ultimi anni prima della destalinizzazione e del crollo del mito del compagno Stalin, duro con i nemici e fedele agli amici. Era il viaggio della vita per un uomo che aveva affidato al comunismo i suoi ricordi, il suo impegno, i suoi ideali. È il viaggio del quale parlerà per anni, inondando di ricordi chiunque avesse il coraggio (e la pazienza) di starlo a sentire.
Fine del racconto nel racconto.
E fuori dal racconto ma ancora dentro, le parole con le quali Massimo Zamboni, il primo punk, l’ultimo comunista, ha chiuso il concerto di ieri “E se non saremo noi a vederla trionfare, e se non sarà da noi e avrà altri nomi forse, altri modi, chissà dove, duecento, trecento, mille anni, vedrete: la trionferà”.
E fuori dal racconto ma dentro un altro racconto, anzi, una moltitudine di racconti. Sta arrivando Musikkeller, un libro che racconta la musica. Un racconto corale, costruito a più mani dagli autori di SOund36. E sì, c’è anche Massimo Zamboni.

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Stefania Pucci

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