Interviste Recensioni

Marco Sonaglia, Intervista

Scritto da Claudia Erba

Estremo baluardo di poesia militante, antagonista e incompromissoria. Abbiamo intervistato Marco Sonaglia in occasione dell’uscita del suo “Ballate dalla grande Recessione”

Anticipato dal singolo “Primavera a Lesbo”, è uscito su tutte le piattaforme digitali ed in formato CD su etichetta Vrec / Audioglobe il terzo disco solista di Marco Sonaglia, cantautore e docente di musica marchigiano.
In “Ballate dalla grande recessione” -dieci inediti i cui testi sono firmati dal poeta Salvo Lo Galbo– la ballata «à la manière de Villon» si fa, attraverso la mediazione brechtiana, dichiaratamente politica e portatrice di una tensione utopica, permeandosi dell’ambizione ad una giustizia sociale più volte negata e cullando la speranza di poter prendere parte, in qualche modo, ad un cambiamento del mondo.
Sonaglia sa bene, con Sanguineti – che a sua volta recuperò la forma metrica della ballata francese – che la forma, da sola, non è sufficiente a far la rivoluzione, tuttavia trova nell’adozione di un metro – magistralmente fornito da Lo Galbo – la soluzione di elezione che consente un posizionamento programmatico all’interno della nuova canzone d’autore, improntata all’urgenza e all’eccezionalità del nostro tempo retrocesso.
Melodia minimale, coloritura timbrica calda e intenzione interpretativa perentoria vestono “Ballate dalla grande recessione”, quasi dieci “Canzoni di rabbia” post litteram che testimoniano una filiazione spirituale diretta da Claudio Lolli e si fanno estremo baluardo di poesia militante, antagonista e incompromissoria.

Con il gruppo marchigiano dei “Sambene” ha inciso due dischi. Come siete riusciti a conciliare/sintetizzare tradizione musicale popolare e canzone d’autore?
La musica d’autore a cui noi facciamo riferimento – vedi De André, De Gregori, Bertoli, il gruppo dei Gang-contiene già in se stessa un diretto rapporto con il mondo popolare. Non è quindi stato difficile compiere un tale percorso, anzi, ci è sembrato naturale. Gli elementi di base di questo rapporto sono la semplicità di melodie ed arrangiamenti e testi narrativi incentrati su un modo di raccontare lineare, nonché un linguaggio diretto e facilmente fruibile.

Com’è nato il sodalizio con Salvo Lo Galbo che ha firmato i testi di “Ballate dalla Grande Recessione”?
Salvo Lo Galbo è poeta, scrittore e infaticabile traduttore dagli chansonnier di lunghissimo corso. Ha tradotto, talora a quattro mani con Fausto Amodei, l’opera omnia di Georges Brassens, suo maestro imprescindibile. La passione per la canzone d’autore è comune. Siamo venuti in contatto inizialmente grazie a Facebook, proprio dopo l’ascolto dell’album tematico “Sentieri partigiani” che lo impressionò per originalità. Chiacchierando telematicamente, ci siamo dati un appuntamento dal vivo e lì abbiamo scoperto di avere più affinità di quel che immaginavamo. Da Torino venne a trovarmi in un weekend a Recanati, nacque una grande amicizia.
Lo Galbo mi passò una cinquantina di alcune sue ballate villoniane a tema politico. Mi piacquero immediatamente. Sono componimenti complessi, ricchi di enjambement, di pause ortografiche nel bel mezzo di un verso… Insomma, non era impossibile musicarle (l’album lo dimostra), ma nessuno inizialmente ci pensò. Poi, tra il febbraio e il marzo 2020, nel primo lockdown, mi tornarono in mano quelle poesie. Corde tra le dita, canticchiai la prima. Girava bene. Poi una seconda, una terza… Inviai i provini a Lo Galbo, si decise di farne un album. Le dieci tracce del disco sono la cernita di un gruppo più ampio di canzoni che avevo registrato su quegli endecasillabi. È decisamente un sodalizio felice, artisticamente e umanamente, infatti ha tutte le intenzioni di continuare.

La potenza sovversivo-contestatrice risiede secondo lei nel suo contenuto o, adornianamente, in una serie di fattori formali (ad esempio, l’ordine del metro, l’opposizione al disordine della società?)
È una domanda davvero stimolante per la quale ringrazio. Mi sono spesso chiesto se la poesia avesse uno “specifico”. Esiste un contenuto che di per sé sia “poesia” a prescindere dalla forma con cui lo si comunichi? Oppure la poesia può essere essenzialmente forma, arrivando a non curarsi affatto del contenuto? Ci ho messo tempo, studio e meditazioni, ma ho capito che la poesia, la buona poesia, è esattamente l’insieme delle due cose, nessuna componente può fare a meno dell’altra. Un commovente discorso politico senza la forma è un comizio, non una poesia di Majakovksij. La poesia deve avere il coraggio dei contenuti e trovare la forma migliore che li trasmetta. L’arte è di per sé armonia. È la fotografia di un pezzo di realtà oppure un pensiero fissato, astratto chirurgicamente dalla bolgia del frenetico divenire, e incorniciato in una teca perché, nel silenzio circostante, stimoli il pensiero e il sentimento. Non importa che l’oggetto d’esame sia “disarmonico”: l’armonia risiede nello stesso atto di circoscriverlo, nella stessa volontà di sottoporlo ad esame. Ma un’armonia che non si ponga in antitesi con la disarmonia, non viene nemmeno percepita come tale e forse non si dà proprio. Le due cose sono intimamente legate, determinanti l’un l’altra.
A Tenco fu chiesto perché scrivesse tante canzoni malinconiche e lui rispose “Perché quando sono felice esco”. Ecco, nella sua spontaneità questa risposta riassume tutto ciò che penso a proposito di forma, contenuto, utilità e significato della poesia.

Ha una sua personale ricetta per uscire dalla crisi recessiva denunciate nelle sue ballate?
Sono comunista e la storia, come diceva Gramsci, mi insegna.
La ricetta è che si esce da questa tenebra solo ricostituendo il partito della rivoluzione, solo rilanciando un grande movimento di lotta sociale, una grande stagione di resistenza e di avanzamento della classe lavoratrice. E non fermarsi fino alla distruzione definitiva della classe nemica che, come si è dimostrato puntualmente, finché vivrà, sarà sempre naturalmente propensa a massimizzare il suo privilegio. Ciò che significa ridurre al minimo i nostri diritti.
Bisogna ripartire da dove siamo stati traditi, dalla rivoluzione per il potere dei consigli dei lavoratori. Vincere e, questa volta, non lasciarci più tradire. Io ritengo che alla riacquisizione della coscienza di classe necessaria per la rivoluzione possa contribuire anche la musica, la poesia, la cultura.

Il suo canzoniere è dichiaratamente politico. Pensa di rappresentare un’eccezione in un contesto di generale disimpegno o di impegno solo episodico e discontinuo?
Non penso di essere un’eccezione, ma so di essere una minoranza. Chiariamoci, i capitalisti se ne sono sempre infischiati di promuovere l’arte impegnata. Non la capiscono nemmeno. Quello che è cambiato è che, mentre un tempo i grandi moti sociali imponevano alle majors di produrre e stipendiare un certo tipo di artisti, oggi siamo in una fase di riflusso, di grande recessione appunto anche culturale. I moti dal basso si sono sopiti e la canzone ritorna ad essere la canzonetta di regime. Per cui gli artisti non-allineati sono rimasti eccome! Potrei citarne una lista, colleghi e amici. Ma sono infinitamente meno degli anni belli di lotta. La scena culturale si è impoverita, ha vinto il processo di selezione genetica attuato dalle grandi aziende, di chi ha formato un certo gusto e un certo pubblico, condannando all’ombra chi non si prostra ai dettami del suo mainstream, dei suoi talent show. A questi artisti io mi sento di dire, ben sapendo quanto sia difficile in quanto sono uno di loro, di continuare, di scrivere, suonare, filmare sempre. Perché poco è sempre meglio di niente, e tanto di questo poco, qui e là, messo insieme costituisce uno zoccolo duro di arte che resiste, di arte che lotta, di arte che ancora sogna i sogni giusti. Quelli che servono a farci muovere in direzione della loro realizzazione.

Ringraziamo Giulia Massarelli

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Claudia Erba

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