Fate parte della scena musicale da molti anni, dagli anni 80 ad oggi cosa trovate sia cambiato, in maniera evidente, fuori di voi?
La nostra presenza sulla scena ha avuto delle interruzioni dovute a scelte di carriera alternative. Dire che al mondo è cambiato tutto mi sembra banale, ma pur vero. La differenza più apprezzabile in campo musicale oggi è la grande possibilità davvero democratica di produrre la propria musica. L’universo indipendente rappresenta il campo musicale più interessante da seguire. Al di là dello stravolgimento del mercato, non ci sono più barriere tra musicisti che frequentano generi musicali diversi, alla faccia della moltitudine di etichette che vengono coniate dai critici per descriverti, oggi la regola è la contaminazione, i jazzisti suonano coi DJ, cosa un tempo impensabile, insomma una figata dal nostro punto di vista. Tuttavia questa mancanza di struttura industriale paga lo scotto della minore efficacia dei propri sforzi: raggiungere un pubblico oggi è difficilissimo. La grande offerta di musica, dischi, creatività estesa è fantastica ma rischia di alimentare una sorta di “abitudine senza stupore” quasi una sotterranea indifferenza per le novità o addirittura una reale difficoltà da parte del pubblico di riconoscere la qualità artistica. Millemila click sui video di YouTube indicano il grande talento di interpreti sconosciuti, ma talvolta le orecchie vengono assordate dalla funambolica capacità tecnica di alcuni “fenomeni” e magari non riescono a percepire il profondo spessore poetico di altri artisti meno esuberanti.
… e in voi? I Luc Orient di adesso sono cambiati musicalmente parlando?
Dal punto di vista della spinta creativa non è cambiato nulla: sentiamo la stessa esigenza espressiva dei nostri vent’anni. Oggi è più facile e più difficile allo stesso tempo. Più facile canalizzare le nostre visioni perché l’esperienza paga, non solo l’esperienza musicale, intendiamo l’esperienza data dalla maturità. Più difficile perché dobbiamo condizionare scelte e azioni agli impegni della vita da adulti. Da un punto di vista strettamente musicale siamo sempre stati molto aperti alle influenze musicali più disparate e anche da suggestioni in arrivo da altre forme d’arte: per esempio i nostri testi sono sempre stati molto “visuali”, quasi degli album fotografici. Ricordo le nostre nuotate con gli occhi immersi nei numeri di National Geographic – allora solo in edizione americana – a nutrirsi di viaggi ed esperienze raccontate per immagini. Non siamo mai stati interessati alla divisione tra i generi e forse proprio questo aspetto ha causato l’interruzione della prima parte della nostra carriera che nella discografia degli anni ’80 prevedeva concetti più rigidi. Oggi tutta la grande massa di ascolti della nostra vita rientra nelle nostre composizioni in maniera naturale. Scopriamo a posteriori, spesso nelle recensioni sui giornali, questa o quella influenza. Da questo punto di vista non ci sentiamo troppo legati agli anni ’80. Senz’altro non per una questione di sonorità, crediamo tuttavia che gli anni a cavallo tra anni ’70 e ’80 abbiano segnato con caratteristiche molto forti, un modo di comporre canzoni capaci di combinare tradizione e sperimentazione e lasciare il segno nel tempo.
Vi siete presi tutto il tempo necessario e tornate con LA VIE A GRANDE VITESSE c’è un filo comune che lega le canzoni dell’album?
La vita a grande velocità in anni giovanili è uno strumento che usi per calmare la tua fame, il desiderio bruciante di vita. Ad un certo punto però capisci che la corsa vorticosa rischia di farti perdere qualcosa per la strada: la prima di tutte è la relazione con le persone. E poi le pause, la lentezza del pensiero permette maggiore comprensione e maggiore profondità di sentimento, i tempi morti così pieni di attività creativa … Il titolo è un desiderio che porta con sé tutta la nostalgia per qualcosa che temi irrealizzabile.
Avete fondato l’etichetta Lademoto Records da dove nasce questa esigenza?
L’artista contemporaneo è solo, Lademoto è un modo per mettersi in rete, per costruire un gruppo di gruppi, un sistema di persone che amano la musica in senso artistico, non superficiale. L’aspirazione segreta è anche quella di poter aiutare nel tempo altri artisti, dare delle opportunità di debutto a giovani talentuosi. Infine è un modo per uscire dall’apparente isolamento di Trieste che sembra molto lontana dall’Italia ma in realtà è molto vicina al resto del mondo.
Cosa ne pensate della new wave di oggi?
Ci annoiano gli artisti e le artiste mainstream da playlist internazionale confezionati ad arte con i suoni analogici a dare condimento e colore ad una musica inutile e soltanto decorativa: la stessa caratteristiche che creò lo stereotipo degli anni ’80 come la fabbrica della musica di plastica. Ci divertono molto i gruppi party-oriented che richiamano alla memoria le nostre feste alimentate dalla musica dei B 52’s, Devo e il Bowie di Fashion: ruspanti, ruvidi e pazzamente inventivi.
Annalisa Nicastro