Quello che ho sempre apprezzato dei Kings of Leon è la loro propensione a suonare selvaggi, con melodie sghembe e montagne di chitarre. L’anarchia, sia a livello compositivo sia a livello strettamente musicale, è sempre stata un po’ il marchio di fabbrica e forse anche il segreto del loro successo. Tuttavia, dopo sei dischi di buon livello, com’è capitato a molti altri artisti (ricordo fra gli altri – nei primi anni 2000 – la spinta che portò i Counting Crows a pubblicare “Hard Candy” con Steve Lillywhite), è arrivato anche per questa band il momento di decidere cosa fare da grandi. In altre parole: scegliere se evolvere, verso qualcosa di più definito e riconoscibile, o se continuare con la formula vincente “fino a esaurimento scorte”, leggasi “privi di idee, fama e quindi soldi”.
Alla fine Caleb Followill e i suoi fratelli (in realtà il bassita Michael Jared Followill è il cugino), hanno giocato la carta Markus Dravs, affidandogli le chiavi d’ingresso del nuovo lavoro, ben sapendo che sulla sua carta d’identità professionale c’è scritto: “Mainstream Assicurato” (ne sanno qualcosa i Depeche Mode, i Coldplay, Bjork e ultimamente anche Florence And The Machine).
A questo talentuoso produttore va riconosciuto di aver sempre rispettato l‘anima degli artisti, guidandoli spesso verso un suono radiofonico che però non ne stravolgesse l’identità.
Con i KOL ha tenuto fede a questa sua prerogativa e così, a mio avviso, Walls suona proprio come il disco della maturità. Certamente si è perso un po’ sul lato della spontaneità (non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca), ma a mio avviso ciò è andato a tutto vantaggio della definizione di un sound più moderno e maggiormente identificabile.
Se con pezzi come “Around the world” (quasi pop direi) ed “Over” – addirittura collocabile nell’area Editors e nipoti della new wave vari – l’operazione cambiamento risulta evidente, in altri è forse un po’ più sfumato (la trascinante cavalcata rock da strada di “Find me”), ma resta comunque riconoscibile.
Arriva poi nella seconda parte un tris d’assi quasi epico che inizia con la lenta ballata “Muchaco”, dal ritmo un po’ latino e con un Caleb addirittura seducente. Sentendola s’inizia già a intuire che Walls può legittimamente aspirare a essere un gran bel disco.
La sensazione più che positiva è confermata dalla seguente Conversation Peace (dedicata alla moglie), che mantiene ancora il freno a mano tirato ed è verosimilmente uno dei brani più belli dell’album e dei KOL in assoluto, pur non essendo previsto come singolo.
La title track finale suggella il tutto trattandosi di un episodio dal mood malinconico, cesellato dall’incedere di una chitarra acustica, ma soprattutto dal piano e dai riverberi synth del polistrumentista Liam O’Neil, la cui presenza nell’economia di questo nuovo disco, in generale, è da considerare determinante.
Chiudo dicendo che forse alcuni fan della prima ora dei Kings of Leon storceranno un po’ il naso per questa loro svolta, ma credo che, se sapranno guardare oltre, dovranno ammettere che nessun gruppo può sperare di sopravvivere senza evolversi. E “i nostri” direi proprio che lo hanno fatto alla grande.
Kings Of Leon – Walls
Walls suona proprio come il disco della maturità. Nessun gruppo può sperare di sopravvivere senza evolversi