Interviste

Intervista a Pieralberto Valli – “L’irrilevanza del Vero”

Scritto da Eva Milan

Ogni concerto che abbiamo fatto è un’esperienza umana. Io suono da tanto tempo e la mia musica è sempre rimasta estremamente di nicchia, questo lo dico con serenità

Dopo l’ultimo folgorante album “Numen” del 2019, ho reincontrato Pieralberto Valli, che conosco da una ventina di anni, dai tempi del suo progetto Santo Barbaro, come prolifico autore di musica e testi, ritrovandoci in un magico parallelismo di esperienze letterarie, percorsi e visioni di accelerazione contemporanea coincidenti, scoprendo i suoi tre ultimi libri che ricalcano la distopia manifesta del presente e recente passato: “Il Nodo”, “Trilogia della Distanza” e l’ultima sua opera letterario-musicale, “L’Irrilevanza del vero”, un romanzo intensamente poetico sul presente-imminente, ma anche uno spettacolo techno-ambient itinerante pensato ed allestito insieme alla danzatrice Giulia Frattini. Reduce dal concerto di Calcata in un tour che lo ha visto impegnato per gran parte dello scorso inverno su e giù per la penisola, in situazioni autogestite e inusuali, con l’allestimento di un cubo autocostruito per una scenografia teatral-minimalista, abbiamo parlato delle motivazioni che lo hanno ispirato in questo suo nuovo viaggio tra letteratura e musica, ai confini tra fantascienza e contemporaneo.

Dal cantautorato elettroacustico post-rock dei Santo Barbaro, attraverso un percorso intenso di poetica esistenzialista, suoni elettrici e sperimentali, sei arrivato a sonorità più elettroniche e techno-ambient, che tuttavia s’intuivano soggiacere in stato embrionale sin dagli albori della tua produzione. Erano suoni che già allora ti appartenevano?
Dal punto di vista musicale, sono figlio degli anni novanta. In quegli anni nei miei ascolti c’erano già i Massive Attack, Portishead, Tricky… erano sonorità che sperimentavo da solo, a casa, con un Pentium 2; al tempo non avevo nemmeno i programmi midi per sincronizzare il tempo, dovevi “spostare” le cose manualmente… impiegavo le ore per sistemare le cose e registrare suoni creati a mano con oggetti di casa e i vari effetti… un altro mondo.

Sei reduce da una serie di concerti in cui hai portato lo spettacolo “L’irrilevanza del vero”, insieme a Giulia Frattini. Come è andata?
Ogni concerto che abbiamo fatto è un’esperienza umana. Io suono da tanto tempo e la mia musica è sempre rimasta estremamente di nicchia, questo lo dico con serenità. Abbiamo cercato di proporre lo spettacolo anche nelle case, e in parte ci siamo riusciti. Persone che ci hanno ospitato in casa, con un pubblico di venti, venticinque persone. La mia è un tipo di musica che in questo tempo va così… Sono tutte situazioni molto affascinanti. A Torre del Greco abbiamo suonato in una chiesa sconsacrata, e a Calcata in locale ricavato da una grotta, il Bard House Gipsy Club. Queste sono le situazioni che preferisco, perché si crea sempre una relazione molto stretta con le persone che vengono a sentirci. Si parla, ceniamo insieme, ci scambiamo i contatti… nascono delle relazioni umane, e quando ripassiamo nello stesso posto anche dopo anni, ritroviamo le stesse persone. Artisticamente non sono nato per fare le piazze, i grandi festival, i grandi numeri… li ho anche fatti, ma probabilmente la mia dimensione è quella di stabilire rapporti più umani con gruppi ristretti di persone. 

Esiste ormai uno scollamento tra la visibilità che riceve un album e il riscontro dal vivo. Pubblichi il disco, magari ricevi recensioni, riconoscimenti anche a un certo livello, sulle riviste mainstream… eppure la dimensione del live non corrisponde più, a livello undergound, allo stesso riscontro di pubblico. Il live ormai è in mano alla grande distribuzione e ai grandi eventi che occupano tutti gli spazi…
Negli anni mi è capitato di essere ospite in trasmissioni RAI oppure a grandi eventi come il MIAMI Festival di Milano… sono cose che nel nostro immaginario ti fanno supporre di essere al di là di una cerchia ristretta. In realtà quella corrispondenza non c’è più, è esistita fino agli anni novanta. Mi è capitato di aprire concerti di gruppi indie più noti, in piazze da duemila persone; poi magari fai il banchetto fuori per vendere i dischi e ne vendi soltanto uno. Sono due mondi che non si toccano più.   

Il vantaggio è quello di restare fuori da un sistema che controlla gli artisti, la produzione culturale, i gusti del pubblico… da un sistema accentratore che strumentalizza e usa gli artisti.
Se guardiamo a quello che è accaduto dal 2020 in avanti, nessuno in quella dimensione ha preso pubblicamente delle posizioni critiche.

Durante quel periodo, tu hai scritto ben tre libri: “Il Nodo”, “Trilogia della Distanza” e “L’irrilevanza del Vero”. Sei stato tra i pochi ad esprimere attraverso l’arte, letteratura e musica, una visione critica in quel momento. Cosa ti ha fatto reagire, a differenza di altri che non sono riusciti ad esprimersi?
Ho sentito un grandissimo vuoto dal punto di vista artistico intorno a me. Mi aspettavo di leggere e di vedere cose che invece non arrivavano… “Il Nodo” era già in cantiere da tempo, e ho realizzato che si stava avverando quello che avevo iniziato a scrivere, quindi a quel punto ho deciso di concluderlo. Doveva essere un romanzo di fantascienza e stava diventando un romanzo di cronaca…

È quello che è capitato anche a me, la fantascienza è finita…
Negli ultimi anni c’è questo problema della fantascienza contemporanea, con l’accelerazione degli eventi non puoi più anticipare niente. Il fatto di far uscire il libro in quel momento mi ha dato la possibilità di parlare di quello che stava accadendo, perché parlarne era sostanzialmente vietato, non c’era alcuna disponibilità all’ascolto di un punto di vista diverso. Spostare tutto sul piano letterario, in una dimensione non necessariamente realistica, poteva consentirmi di far passare un messaggio. Perché il punto fondamentale oggi è uscire dalla divisione. Spostando il discorso su un piano letterario, in una dimensione narrativa, c’è almeno la possibilità di parlarsi anche da posizioni diverse.

Nella quarta di copertina de “L’irrilevanza del vero”, scrivi: “Come si può trovare la verità quando ogni cosa è verosimile?” Qui tu racconti di questo essere biomeccanico, clone di un umano morente, che è collegato all’umano mediante USB e assorbe la sua personalità ma anche la sua storia, la sua esperienza umana, cercando di capire il suo sentire, ma non riesce a coglierlo completamente, a sostituirsi a lui… gli sfugge qualcosa.
Alla macchina, soprattutto a livello creativo, artistico, per quanto essa possa creare qualcosa di bello e perfetto, manca un passaggio fondamentale, l’unico che conta: l’intenzione animica, emotiva, dell’essere mortali, che è la leva che spinge l’uomo a creare, a lasciare una traccia, ad esprimere quello che prova e che pensa. Quello che resta alla macchina è solo l’estetica. È una creazione sterile perché non c’è la conoscenza della morte.

…e quindi l’automa-clone, per capire più a fondo questo sentire umano, inizia a leggere il libro che il morente non ha fatto in tempo a finire… Trovo che sia molto potente questa immagine, considerato che siamo probabilmente alla fine dell’epoca del testo. Cosa ti ha ispirato questa idea dell’automa che legge? L’idea della necessità di recuperare la cultura storica, il patrimonio umano, che da sempre è tramandato attraverso il testo?
In questo momento storico, la lettura è un impegno che richiede troppo tempo e sforzo… è già uscita dal tempo. Io credo che le cose siano cicliche, quindi i libri torneranno, perché ciclicamente ci rendiamo conto che le cose del passato hanno un valore. Nel libro, la macchina, per provare a comprendere cos’è che gli sfugge dell’essere umano, trova il libro e inizia a leggerlo… e leggendo qualcosa succede, comprende finalmente cose che con il passaggio di dati USB non era riuscito a comprendere.

“L’irrilevanza del vero” poi è diventato anche un album. Cosa è venuto prima, il libro o la musica?
Quando ho scritto il libro, da un po’ di tempo avevo smesso di suonare… anche perché non si poteva fare. Avevo però diverso materiale musicale già fatto. Una cosa che non avevo voglia di fare erano le presentazioni dei libri classiche. Quindi recuperando musiche che avevo già pronte, con Giulia Frattini, che è la danzatrice che lavora con me, si è pensato di fare uno spettacolo, ricreando la stanza in cui si ambienta il romanzo e i due personaggi, il morente e il clone biomeccanico, costruendo la scenografica con una struttura essenziale di linee e luci al neon nel cubo che abbiamo costruito dentro il quale ci esibiamo. Quindi al posto delle presentazioni del libro, proponiamo questo spettacolo.

E come è andata, che riscontro hai avuto?
È stata una bella esperienza. Per prima cosa, questa volta non mi sono sentito un musicista, ma un performer, ed è interessante stare in fondo alla scena, non essere un frontman. Dentro al cubo che abbiamo costruito, noi non possiamo vedere il pubblico, quante persone ci sono, l’esterno scompare… sono dunque concentrato nella performance, faccio il mio.  È stato anche interessante vedere come il pubblico si approcciava allo spettacolo, perché ci si può muovere attorno al cubo e non stare necessariamente davanti… non è stato semplice convincerli che potevano farlo… è stato molto divertente, e mi ha ridato un po’ di gioia nel tornare a suonare.

 

Video-intervista completa su YouTube:

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Eva Milan

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