Sì insomma, parlo di quegli album che in qualche modo rappresentano la porta verso un nuovo percorso o in qualche modo di svolta (penso ad esempio a lavori di rilevanza planetaria: Green, per i REM e Unforgettable fire, per gli U2). Spesso queste porte conducono solo all’ingresso della casa, prima di entrare nella stanza del successo stellare (Out of time), o addirittura nel salone del capolavoro intramontabile
(rispettivamente: Automatic for the people / The Joshua Tree). Nella carriera dei Depeche Mode il mainstream e la fama erano sempre stati di casa, ma pur avendo alle spalle già quattro dischi di successo, molti singoli e un primo greatest hits, Black Celebration fu davvero decisivo. I protagonisti avevano l’ambizione di essere annoverati fra i grandi della musica mondiale ed era quindi arrivato il momento per loro di introdurre uno spirito nuovo, un cambio di passo in termini di spessore compositivo, sia sul fronte del mood che dei testi. In altre parole le melodie e l’elettronica non sarebbero state più (solo) al servizio della radio o del gancio danceda classifica, ma avrebbero puntato direttamente al cuore.
Con queste premesse, i ragazzi fecero centro.
Black Celebration, a cominciare dalla sua intrigante copertina nera, apre di fatto l’era pop-dark della band inglese, che già vedeva schierati in prima linea Martin Gore come mente (all’epoca scriveva sostanzialmente tutti i pezzi da solo) e Dave Gahan come anima pulsante e frontman indiscusso, con Andy Fletcher e Adam Wilder (li lascerà nel ’95) relegati a fornire il proprio contributo “elettronico”, comunque determinante anche in vista del nuovo sound.
Parlando proprio di quest’ultimo, è sufficiente ascoltare il primo singolo Stripped (uscì a febbraio del 1986) per capire che le cose stavano prendendo una piega differente. Il ritmo inizia lowtempo, mentre la voce è sofferta e il mood generale risulta decisamente più consono a un pezzo rock. Le stratificazioni elettroniche si aggiungono progressivamente e, piano piano, tutto prende quota, raggiungendo nuove vette estetiche all’insegna dell’oscurità. Anche la title track, che apre l’album, contiene un po’ tutti gli elementi appena citati e porta l’ascoltatore in un “mondo cupo”, col suo incedere sempre più veloce. Come in ogni loro disco c’è anche lo spazio per ascoltare la voce tanto splendida quanto malinconica di Martin Gore e che, nella ballata A Question of lust, in fin dei conti sembra non aver proprio nulla da invidiare alla più celebre Somebody.
Gli fa un po’ da contraltare la cavalcata A Question of time che forse più di altre contiene già alcuni dei suoni che saranno alla base dell’ulteriore e successivo passo discografico verso la gloria, sempre nella nuova direzione intrapresa: Music for the masses, che vedrà la luce l’anno successivo confermando alla grande la bontà della scelta fatta, con milioni di copie vendute. Il “salone”, citato nell’introduzione di questa nostra breve recensione, sarà però raggiunto con l’intramontabile Violator (del 1990) il quale però, come ho tentato di spiegare, ha in Black Celebration le sue radici primordiali. Un disco, quest’ultimo, che resta seminale per tutto il movimento new wave degli anni 80.
Noi di SOund36 vi proponiamo, con questa rubrica dedicata alla “Soffitta” dei ricordi, di rispolverare album come questo, che forse non si ascoltano da tempo, e magari di rivivere le emozioni che queste canzoni “da medaglia di bronzo” ancora sono in grado di regalare.
Depeche Mode – Black Celebration
Ogni carriera musicale che si rispetti, sia essa di un artista o di una band, ha il suo disco spartiacque.