Recensioni

Dave Rowntree – Radio Songs

Scritto da Red

Quello che conta è la magia della manopola che sposta il cursore prima a destra poi a sinistra, in una spasmodica e irrazionale ricerca di un suono, di una nota distorta che scivola come lava per infiammarci

di Ginevra Tasca

L’evoluzione dell’uomo è andata di pari passo a quella della comunicazione, perchè le parole assumono significati sempre nuovi e diversi a seconda dei riferimenti, come è successo ad esempio con l’etere: Riferito al composto da laboratorio, è un anestetico; riferito all’elettromagnetismo, è il mezzo di propagazione delle onde.
Dave Rowntree conosce bene entrambi i significati e sa che la musica è l’anestetico dell’anima e la radio ne é il mezzo di propagazione più diffuso.
Dave, batterista della celeberrima band inglese Blur, rende omaggio a quella che, di certo, è l’invenzione più popolare, più accessibile, più curativa di tutti i tempi: la radio.
A partire dalla copertina, é un tributo alla scatola magica.
Il suo album di debutto Radio Songs – uscito il 20 Gennaio di questo ventiventré – racconta come sintonizzarsi sulle frequenze che fanno vibrare.
Non importa se siano frequenze di una stazione radio dalla sperduta Guyana Francese o dalla fragorosa Londra, quello che conta è la magia della manopola che sposta il cursore prima a destra poi a sinistra, in una spasmodica e irrazionale ricerca di un suono, di una nota distorta che scivola come lava per infiammarci.
Si può scegliere se guardare il vulcano in foto o se lasciarsi travolgere dalla sua lava calda, morbida, sensuale e distruttrice per sciogliere il ghiaccio dei tempi. In Volcano è di questa scelta che si parla. È una scelta spalmata sulle scie di suoni lunghi e vaporosi del synth, interrotti dal graffio di una frequenza disturbata. Perché si sa, le scelte sono un disturbo.
L’imprevedibile programmatore di PC dell’Essex, Dave, insieme a suo padre, ingegnere del suono della BBC, si divertivano a costruire radio sul tavolo della cucina.
La grafica di London Bridge è un richiamo a questo rito, al rito dell’assemblaggio.
Le note scritte sul rullo musicale sono manufatti di cartoncino ritagliato e sagomato. Palazzi, strade, lampioni spuntano ad ogni giro di rullo. Le note sono estruse dalla drum machine al ritmo convulso della capitale dell’Impero Britannico, in una realtà distonica che ci trascina dapprima sull’orlo di un ponte e poi ci scaraventa lontano da esso con lo stesso impeto, senza che il rullo si inceppi mai.
Ruggire come leoni e piangere come agnelli è la dicotomia di tendenza dei giorni nostri.
Nel regno del glitterato social network, ognuno è su un’isola. Devil’s Island è il brano di apertura del disco ed è anche la sintesi allegorica di questa solitudine e contraddizione, dove i freddi abbracci sono una consuetudine. È un canto tribale, cadenzato come una nenia.
L’album è un itinerario che inizia con frequenze trascinate, si spinge verso i graffi della drum machine, passa attraverso le tastiere trillanti e arriva alla tenerezza arpeggiata della chitarra di Gary Go e degli archi pieni e carezzati di Högni Egilsson – entrambi co-autori dell’album.
È un viaggio, uno di quelli a cui si ripensa con nostalgia e un sorriso appena accennato, mentre si ruota distrattamente il tuner della radio. Non sappiamo bene cosa cercare, ma, la radio, magicamente, trova sempre le frequenze che fanno al caso nostro.

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